di Salvatore Lucchese
A cavallo tra Otto e Novecento, un giovane intellettuale socialista di origini pugliesi, Gaetano Salvemini, già allievo del liberale moderato Pasquale Villari presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze, apporta una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’ nell’ambito del dibattito meridionalista, ponendosi la seguente domanda:
C’è nell’Italia meridionale un punto d’appoggio, su cui si possa fare leva per sollevare il mondo sociale? O, in altre parole, c’è nell’Italia meridionale un partito riformista? E se non c’è, è possibile che sorga? E quali sono le persone che lo comporranno?
Quella attuata da Salvemini nel campo degli studi sulla questione meridionale, si configura come una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’, in quanto, secondo lo studioso pugliese, il meridionalismo doveva uscire dalle secche in cui si era arenato delle sue pur approfondite analisi sul cosa fare per riscattare il Meridione dalla condizione di arretratezza rispetto al Settentrione, ponendo, invece, al centro del dibattito politico-culturale il tema, da lui considerato centrale, del chi deve fare cosa per l’emancipazione del Sud.
In altri termini, sulla base della concezione materialistica della storia, il giovane socialista pugliese, poneva il problema dell’individuazione e della conseguente organizzazione ed educazione politica delle forze sociali su cui “fare leva” per la trasformazione del Sud e dell’intero Paese in termini di giustizia sociale e democrazia.
La risposta data da Salvemini alla domanda da lui magistralmente posta è nota a tutti: la forza su cui fare leva per riscattare il Mezzogiorno dalle sue condizioni di arretratezza sociale, economica e civile erano i contadini meridionali in alleanza con gli operai settentrionali. Un blocco sociale riformista in opposizione a quello conservatore e reazionario composto dai latifondisti del Sud e dagli industriali del Nord. Un’analisi, quella di Salvemini, che farà storia, essendo ripresa successivamente in chiave rivoluzionaria dal comunista Antonio Gramsci.
Ancora oggi, purtroppo, permane il gap Nord-Sud, alimentato dalle politiche sedicenti nazionali di sperequazione della spesa pubblica complessiva pro-capite, che ogni anno, nel corso degli ultimi 25 anni, destinano al 34% della popolazione italiana residente al Sud soltanto il 28% delle risorse pubbliche complessive, a beneficio del 66% della popolazione nazionale residente al Centro-Nord, che, invece, a costituzione rovesciata, riceve il 72% dei finanziamenti pubblici complessivi. In valori assoluti 60miliardi di euro in più al Centro-Nord e 60miliardi di euro in meno al Sud.
Insomma, i ricchi sempre più ricchi a discapito dei poveri in un’Italia di tradizione culturale cattolica, dove il Vangelo, però, viene interpretato ed attuato alla rovescia: “Beati i ricchi, perché di essi è il regno dei cieli”.
Allo stesso modo, bisogna osservare che ancora oggi, se sul versante del meridionalismo di analisi (vedi, ad esempio i Rapporti annuali della Svimez) vengono formulate proposte ponderate nel merito e nel metodo per la riunificazione sostanziale delle “due Italie”, il cosa fare, rimane, invece, del tutto marginale il problema del chi deve fare cosa in rappresentanza di chi.
Certo, non mancano i contributi relativi al problema del vuoto di rappresentanza del e al Sud, come quelli, ad esempio, offerti dall’economista meridionalista Pietro Massimo Busetta o dal Presidente del Partito del Sud-Meridionalisti Progressisti Natale Cuccurese.
Tuttavia, come è stato già evidenziato sulle pagine di questa rivista, occorre assumere la “rivoluzione copernicana” salveminiana sino in fondo ed intrecciare sempre più decisamente le analisi e le proposte politiche per la soluzione della questione meridionale, oggi non solo di valenza nazionale ma anche europea, con le analisi di classe, anche per contrastare una pericolosa deriva identitarista da Lega Sud del tutto speculare a quella della Lega Nord. Una deriva, quella della galassia dei vari sudismi e neo-borbonismi, che se dovesse accentuarsi potrebbe condurre alla definitiva “balcanizzazione” di un Paese già ampiamente diviso e diseguale.
Allora, occorre chiedersi a chiare lettere chi sono i nuovi vinti del Sud del XXI secolo? Chi sono i nuovi contadini meridionali eredi dei contadini ribelli sociali passati alla storia come “briganti”? Quali i soggetti su cui, a partire da Sud, fare leva per “sollevare il mondo sociale”?
Ebbene, da una prima lettura del Rapporto Svimez 2024, i nuovi “vinti” ed i nuovi “contadini ribelli sociali” del Sud sono: 1) I 3milioni di lavoratori inutilizzati o sottoutilizzati, di cui quasi un milione di disoccupati secondo la definizione ufficiale, 1,6 milioni di lavoratori potenziali e 400mila di lavoratori part-time; 2) Il milione e mezzo di lavoratori poveri (il 60% del dato nazionale); 3) I 200mila giovani laureati che negli ultimi dieci anni sono emigrati dal Sud; I 20mila studenti universitari l’anno che si iscrivono agli Atenei del Centro-Nord; 4) I 300mila occupati del settore automobilistico in crisi a livello europeo; 5) La fasce sociali marginali, in primis bambini, donne, anziani, che non possono usufruire di servizi scolastici, sanitari ed assistenziali pubblici adeguati, nel “Bel Paese” dalle “due scuole” e dalle “due sanità”.
Ma di cosa ha bisogno l’intero sistema-Paese visto da Sud? Visto attraverso gli occhi dei disoccupati, degli inoccupati, dei lavoratori poveri, dei giovani studenti universitari, dei laureati, delle donne, dei bambini, degli adolescenti e degli anziani appartenenti alle fasce marginali del Sud?
Di certo, ha bisogno di politiche di sviluppo, necessita di lavoro, di rinnovi contrattuali, di politiche di contrasto alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, di stabilire un salario minimo, di un reddito di cittadinanza, di investimenti in scuola, università, sanità e trasporti pubblici, di aumenti congrui delle pensioni minime, ma, soprattutto, data l’attuale sperequazione a favore del Centro-Nord dell’allocazione della spesa pubblica complessiva pro-capite che l’attuale Governo di Destra vorrebbe istituzionalizzare tramite l’attuazione del regionalismo estrattivo e discriminatorio in salsa leghista e proto-leghista, necessita della perequazione infrastrutturale e sociale a livello territoriale.
Così come, vista sempre attraverso gli occhi delle classi marginali meridionali, la politica generale e quella estera dello Stato italiano dovrebbero essere decisamente indirizzate non verso l’austerità, le privatizzazioni, la criminalizzazione del dissenso ed il riarmo da fare sulla pelle del(i) Sud, ma, all’esatto opposto, verso il rilancio dello Stato sociale, della solidarietà, della democrazia, della pace e della cooperazione internazionale.
E allora, chi deve fare cosa dando voce a chi per unificare le “due Italie”? Le parole chiave sopra indicate – perequazione territoriale, sviluppo, lavoro, pace, democrazia, diritti – rinviano ad una costellazione concettuale di sinistra, in quanto incentrata sui valori guida di uguaglianza e giustizia sociale.
Tuttavia, se le sinistre politiche, sociali e culturali di questo Paese, già ampiamente diviso e diseguale dal punto di vista economico, sociale, culturale, civile, generazionale e di genere, non inseriscono, coerentemente all’ottica della intersezionalità delle lotte alle diverse forme di sperequazione, dominio e sfruttamento, il tema della perequazione sociale ed infrastrutturale tra Nord e Sud non riconosceranno mai appieno la peculiarità della questione meridionale, non vi sarà mai il pieno riconoscimento delle classi subalterne del Sud non solo sfruttate e marginalizzate per motivi sociali, generazionali e di genere, ma anche discriminate per la loro collocazione territoriale. Insomma, quello che occorre è un meridionalismo di lotta per una sinistra di classe ed una sinistra di classe per un meridionalismo di lotta.