di Antonio Salvati

Pochi mesi dopo la l’elezione di Papa Bergoglio, il grande pensatore polacco, Zygmunt Bauman, al quale si deve la particolare definizione di “modernità liquida”, dichiarò: «Sono incantato di quanto Francesco va facendo: credo che il suo pontificato costituisca una chance non solo per la Chiesa cattolica, ma per l’umanità intera». «Bergoglio – aggiunse Bauman – sa parlare alla spiritualità tipica del nostro tempo: i seguaci del Dio personale, in effetti, non sono molto interessati alle prescrizioni morali impartite dai rappresentanti delle istituzioni religiose, ma desiderano rintracciare un senso nella frammentarietà delle loro esistenze individuali. Sono ancora in attesa di un Evangelo, nell’accezione originaria del termine di una buona notizia». 

Bauman rimase stupito sull’enfasi che Bergoglio poneva fin dall’inizio del suo Pontificato sulla pratica del dialogo: «un dialogo effettivo, che non va condotto scegliendo come interlocutori coloro che, più o meno, la pensano come te, ma diviene interessante quando ti confronti con punti di vista davvero diversi dal tuo; in questo caso, può davvero succedere che i dialoganti siano indotti a modificare le proprie idee, rispetto alle posizioni iniziali». Evidentemente Bauman seppe correttamente vedere lontano e considerò Papa Francesco il più grande dono della Chiesa cristiana al nostro mondo smarrito e sperduto.

Pierangelo Sequeri, invitando a far nostri gli impulsi buoni ereditati dal ministero di Francesco, evoca alcuni orizzonti sui quali incamminarsi che impongono una cultura cristiana radicalmente nuova. Il primo orizzonte è descritto così. La Chiesa di Gesù non si fa solo con quelli che “vengono in chiesa”. Quando si fa soltanto con quelli, la Chiesa perde slancio, smarrisce la missione, diventa autoreferenziale, si corrompe, persino. Bergoglio si è impegnato appassionatamente per trasmetterci questa evidenza. Lo ha fatto in tanti modi. Nel modo diretto, immaginoso, gestuale, delle sue parole e dei suoi atti. Anche restituendo forza alla novità evangelica della parola e della pratica degli interlocutori che Gesù – – sottolinea Sequeri – si ritaglia fra gli uditori apparentemente meno adatti ad afferrare il passaggio del regno di Dio e a trovare la strada della fede. La Samaritana, la Cananea, Zaccheo, il Centurione, il Cieco, il Ladro, il Lebbroso e molti altri e altre. Figure accomunate «dalla drammatica povertà di un’esistenza ferita, metafore della umana estraneità alla perfezione morale». In altri termini, Papa Francesco ci ha invitato fin dall’inizio a vivere e ad abitare istituzionalmente e allegramente una Chiesa “allargata”.

Non a caso, il novantaquattrenne cardinale Camillo Ruini, in una recente intervista, ha dichiarato – potremmo dire “democristianamente” – che Bergoglio «si era rivolto soprattutto a quanti erano distanti, con modalità che hanno irritato chi per anni si era speso a difendere le posizioni cattoliche. Francesco è sembrato, cioè, privilegiare i lontani a scapito dei vicini. (…) Ma come nella parabola del figliol prodigo l’altro figlio protestò, così oggi c’è chi protesta nella Chiesa». Per Ruini davanti al popolo «diviso tra chi vuole mantenere i valori tradizionali e chi vuole aprirsi al mondo di oggi» bisogna «agire con prudenza, per fare magari entrambe le cose. Purtroppo la popolazione ha percepito una scelta netta di Bergoglio verso l’apertura alle novità. E molti lo hanno rifiutato per rimanere fedeli alle loro convinzioni».

Lasciamo le considerazioni di Ruini. Anche se in questo momento di vigilia del Conclave la Chiesa cattolica può sembrare per molti versi assai divisa, è difficile pensare a un successore di Bergoglio che si discosti dalla sua grande apertura alla pastorale della misericordia. Il messaggio e l’umanità di questo Papa sono andati più in là di quanto pensavamo o immaginavamo. Francesco ha incontrato molte resistenze, pigrizie, inerzie. E in vari mondi, anche nella curia. Ma ha ottenuto risultati da cui non si potrà prescindere. Una chiesa di popolo, con i poveri al centro, che si batte per la pace. Prima del suo pontificato, spesso, il rapporto con i poveri era delegato a istituzioni assistenziali. Lui invece li ha messi al centro, ne ha fatto un segno distintivo del suo pontificato, ha parlato della necessità di toccarli, abbracciarli, come ha fatto tante volte, di vivere la loro condizione come esperienza umana e spirituale. Il suo sogno di una Chiesa “in uscita” è ancora attuale. Rimane la consapevolezza che una fede senza umanità è sterile. E la coscienza che il Vangelo si comunica con la vita non solo con le parole.

Non pochi hanno osservato che “periferie” è la parola chiave per capire tutto il pontificato di Papa Francesco. Con questo termine Francesco non intendeva proporre progetti, bensì processi: andare, uscire, radicarsi in questi luoghi che sono il vero cuore delle città. Già da arcivescovo Buenos Aires, si rese conto che le “periferie” non sono soltanto luoghi, ma anche e soprattutto persone, come disse nel suo intervento durante le Congregazioni generali prima dell’ultimo Conclave: «la Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria» (9 marzo 2013). Ponendo al centro il tema delle periferie, Francesco non fece altro che riprendere una riflessione di lungo periodo e la pone nella scia della preoccupazione centrale del Concilio Vaticano II: l’evangelizzazione dell’uomo e della donna contemporanei attraverso la condivisione del loro mondo e la simpatia per la loro vita. Non che il papa non sia stato sensibile ai valori etici, ma affermò il primato dell’andare in periferia e del comunicare il Vangelo. In altri termini, il cristianesimo deve compiere una «scelta preferenziale» per i periferici e le periferie. È qualcosa che scaturisce dal Vangelo: la cosiddetta scelta della Chiesa per i poveri, che è la sua vera realizzazione storica e geografica. Si potrebbe parlare – sostiene Andrea Riccardi – «di una geopolitica evangelica di papa Bergoglio o di una geoteologia, per così dire. Non si tratta di posizioni estemporanee o pragmatiche, ma di qualcosa che viene dal vissuto e dal profondo della Chiesa, a cui il Vaticano II ha dato nuovo vigore proponendo la tematica della Chiesa dei poveri. Va detto che poveri e periferici si identificano e si sovrappongono, ma si deve notare anche che l’uso dell’espressione geografica «periferia», nel linguaggio del papa, ha un suo valore peculiare». Francesco ha detto: «i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia… si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia… Per capire davvero la realtà, dobbiamo spostarci dalla posizione centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica».

Nell’Evangelii gaudium (novembre 2013), il suo manifesto, il papa parla di «conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno». «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo contemporaneo, più che per l’autopreservazione».

Francesco è stato l’uomo dell’unità, non solo dei cristiani (oggi purtroppo così divisi, come gli ortodossi tra Costantinopoli e Mosca), ma con le religioni. Incarnò il sogno della Chiesa del Concilio. Il Vaticano II, in tempo di guerra fredda e in un mondo diviso in due, sognò l’unità dell’umanità: «tutto il genere umano ricondotto all’unità della famiglia di Dio». Francesco, nella Fratelli tutti, lanciò l’allarme: «la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi». Propone un movimento di fraternità dal basso e tra popoli fratelli, che vivano come una famiglia con un destino comune, curino la terra, creino una nuova cultura in un mondo di emozioni o odi: «cultura dell’incontro significa che come popolo ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti».

Con questo spirito si comprende la firma apposta da Francesco il 4 febbraio 2019 al testo sulla Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, noto anche come Dichiarazione di Abu Dhabi, con il grande imam di Al Azhar, Ahmad al-Tayyib, la più alta autorità musulmana sunnita: «dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Ricordano: «ci sono zone che si preparano a diventare teatro di nuovi conflitti dove… si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi». Qualcuno scrisse che è un testo il cui messaggio resterà sulla carta: i pessimisti, per cui diffidare diventa norma. C’è da ricordare che quando fu eletto Francesco il mondo cristiano era in tensione con l’Islam. C’è una storia che ha portato all’incontro degli Emirati, non solo tra le due grandi personalità, ma anche di figure cristiane, musulmane, ebraiche, buddista, induiste e altro. È la genialità di Giovanni Paolo II nel 1986. Lo spirito di Assisi fu portato avanti dalla Comunità di Sant’Egidio con incontri frequentati da tanti non cristiani e ha reso tradizione la presenza delle altre religioni. Lo spirito di Assisi è entrato nell’islam, come si è visto negli Emirati: vuol dire un superamento di posizioni pietrificate. Francesco ha aperto nuove strade anche con il mondo sciita, come l’incontro con l’imam Al Sistani. In un tempo difficile ha saputo creare relazioni positive, profonde, sincere.

Nel 2016 ad Assisi all’Incontro Internazionale di Preghiera per la Pace, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, disse: «Non possiamo restare indifferenti. Oggi il mondo ha un’ardente sete di pace. In molti Paesi si soffre per guerre, spesso dimenticate, ma sempre causa di sofferenza e povertà. A Lesbo, con il caro Patriarca ecumenico Bartolomeo, abbiamo visto negli occhi dei rifugiati il dolore della guerra, l’angoscia di popoli assetati di pace. Penso a famiglie, la cui vita è stata sconvolta; ai bambini, che non hanno conosciuto nella vita altro che violenza; ad anziani, costretti a lasciare le loro terre: tutti loro hanno una grande sete di pace. Non vogliamo che queste tragedie cadano nell’oblio. Noi desideriamo dar voce insieme a quanti soffrono, a quanti sono senza voce e senza ascolto. Essi sanno bene, spesso meglio dei potenti, che non c’è nessun domani nella guerra e che la violenza delle armi distrugge la gioia della vita».

Il mondo attuale va, in ordine sparso, verso “la guerra mondiale a pezzetti”, secondo una nota affermazione di Francesco. Questo effetto globale contamina anche i legami individuali. Prima che i “pezzetti” della violenza liberalizzata e legittimata si saldino fra loro irreversibilmente, è necessario ricorrere all’azzardo del seme evangelico. Oggi, direbbe Sequeri, è la mossa più razionale. Si tratta «di gettare il cuore oltre l’ostacolo e applicarsi alla creazione di una lingua umanistica che apprende dall’esperienza del suo svuotamento e del suo scarto». La “fraternità”, come orizzonte del carattere generativo e non distruttivo, della convivenza civile, è certamente una categoria del linguaggio cristiano che contrasta il nichilismo dell’auto-realizzazione. Forse, dovremo – come suggerisce Sequeri – cessare di considerare semplici “paradossi” evangelici le istruzioni di Gesù sull’amore ai nemici «che ci rende umani, sulla spesa della propria vita per guadagnarla, sulla capacità dei padri di emozionarsi per il figlio ritrovato, sulla festa del cielo per una conversione umanamente impensabile. In queste figure limite della radicalità evangelica, si nasconde però un’antropologia ancora inesplorata che dobbiamo “inventare”, portare alla luce e mettere in rete. Più colta e più credente della santa ignoranza che rimuove dalla fede il pensiero, più dialettica e più smaliziata del goffo neo-liberismo che accumula profitto senza decenza e senza senso». Esistono forze, religiose e laiche, che condividono la crisi di rigetto e sono disponibili all’alleanza. Saremo capaci di trarre dal magistero di Papa Francesco la fede evangelica e la cultura di un umanesimo civile per contrastare insieme il “paradigma tecnocratico”, per dirla con Papa Francesco, nel quale siamo oggi, volenti o no, tutti immersi? Nel Natale 1942 il teologo Dietrich Bonhoeffer – in un a situazione dura, c’era la guerra – scriveva: «…l’ottimismo non è un modo di vedere la situazione presente ma è una energia vitale, una forza della speranza laddove altri si sono rassegnati: la forza di tener alta la testa anche quando tutto sembra fallire, la forza di reggere i colpi, la forza che non lascia mai il futuro all’avversario ma lo reclama per sé… l’ottimismo come volontà di futuro…». Conoscere per amare, diceva il mistico del 900 Massimo Vannucci. E amare è condividere anche una volontà di futuro per la società e per la chiesa.

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