di Ciro Esposito

Lo Stato del potere (Editore Meltemi, 2025) è uno dei tentativi più riusciti di individuazione e spiegazione del nesso tra le politiche neoliberali e la trasformazione del potere pubblico derivata dal loro dispiegamento.

L’autore, Carlo Iannello, professore di Diritto Costituzionale all’Università “Luigi Vanvitelli”, fu tra i pochissimi giovani studiosi a comprendere, fin dalla sua proposta, la portata devastante per l’unità dello Stato della riforma del Titolo V della Costituzione. Ora, riesce a cogliere il passaggio da una forma all’altra del dominio neoliberale, che svuota di senso la norma e il potere pubblico per piegarlo ai fini del profitto senza limiti di una nuova oligarchia mondiale.

L’egemonia neoliberale, dopo i “Trenta Gloriosi” del compromesso tra capitale e lavoro, conclusisi alla metà degli anni Settanta, spezza la continuità novecentesca tra Stato liberale, in cui il potere pubblico assolve la funzione di preservare i diritti naturali (comprensivi di proprietà privata e libertà economiche) e Stato sociale, che aveva orientato la difesa dei diritti naturali alla realizzazione della persona.

Il neoliberalismo (che Iannello preferisce al termine solo italiano di “neoliberismo”) rovescia il paradigma sociale-liberale che aveva ispirato le Costituzione novecentesche.

In questo nuovo paradigma, l’economia si pone al di sopra dello Stato, che assume un ruolo servente rispetto ad essa. E’ un nuovo modo di intendere il rapporto tra Stato, società ed economia: lo Stato può fare solo ciò che risulti coerente con il mantenimento e l’espansione del mercato concorrenziale, è sotto il controllo del mercato.

In Italia, la progressiva demolizione cui è sottoposta la Costituzione mira a lasciarne intatta solo la forma, il guscio, mentre viene roso dall’interno. Il federalismo disaggregativo che ha ispirato la riforma del Titolo V mette in concorrenza le regioni tra loro, operando un colossale processo di disarticolazione dell’unità nazionale di cui l’autonomia differenziata, rivendicata dalle regioni settentrionali rappresenta il frutto più contingente e avvelenato.

Lo stesso diritto comunitario ha contribuito a minare ogni possibile resistenza da parte degli Stati nazionali: l’”economia sociale di mercato fortemente competitiva” indicata dal terzo articolo del Trattato dell’Unione Europea è un ossimoro in cui il termine “sociale” serve in pratica solo a dissimulare la forte competizione.

L’economia cresce di meno e la società si impoverisce, ma tutta la crescita prodotta viene predata da una casta di super-ricchi. Le diseguaglianza aumentano a dismisura ma  non sembra esserci spazio per la critica; l’impresa, la razionalità economica sono diventate “la nuova ragione del mondo”.

Tuttavia, anche questo nuovo ordine sta per essere superato da una nuova fase del neoliberalismo.

Infatti, la disarticolazione dello Stato sociale e la colonizzazione dello spazio pubblico da parte dell’impresa privata ha prodotto l’esigenza di una nuova pianificazione di cui sono protagonisti i giganti dell’economia. Allora, lo Stato non è più asservito alle generiche forze del mercato, come nella precedente fase neoliberale, ma direttamente ai suoi grandi attori privati. In altri termini, il capitalismo neoliberale è entrato nella sua fase oligarchica.

Il nuovo attivismo dello Stato non è in vista di una sua ripresa autonoma,non si vede all’orizzonte nessun impegno diretto a far pagare tasse che non siano più che simboliche alle grandi imprese multinazionali o – a fronte dell’impoverimento crescente della società – a promuovere politiche redistributive del reddito. Non c’è traccia di intervento pubblico nell’economia e la stessa spesa in deficit ammessa dal PNRR non è destinata alla spesa sociale ma alle imprese (e per questo motivo viene definita “debito buono”).Le stesse politiche di transizione ecologica e digitale sono trainate dalle imprese private e in particolare dai fondi d’investimento, colossi privati finanziarimondiali che esercitano un dominio opaco sull’economia e sulla politicainternazionali.

Dunque, il ruolo dello Stato novecentesco si è ribaltato: da difensore dei diritti naturali e promotore dei diritti sociali in nome dell’integrità della persona a garante dei profitti delle grandi concentrazioni finanziarie: ”Lo Stato economico neoliberale è diventato quella sovrastruttura descritta da Marx al servizio degli interessi del grande capitale”.

E’ in questo quadro che si può inquadrare la ripresa dell’attivismo dello Stato, che opera per dilatare lo spazio dell’intervento privato aiutandolo a superare i confini precedenti. Da qui il nuovo ruolo repressivo nei confronti dei conflitti sociali e la politica delle emergenze, ormai assurta a paradigma di governo. Da intervento eccezionale e transitorio dovuto a condizioni gravi e altrettanto eccezionali a metodo per sopperire alle inefficienze dell’amministrazione. Si creano così delle amministrazioni parallele che agiscono in deroga ai vincoli di legge per anni (quindici, nel caso dell’emergenza-rifiuti in Campania).

L’emergenza – e i “superpoteri” che ne derivano – comprimono il conflitto sociale e al limite lo reprimono e lo criminalizzano, ponendo un limite, che può diventare anche molto pesante, all’esercizio dei diritti democratici. Nelle “emergenze” lo Stato finisce per assumere un ruolo di controllo e sorveglianza, accrescendo il proprio carattere repressivo.

Lo stesso fenomeno dell’astensionismo, il ritiro degli elettori, di qualunque condizione sociale e culturale, in tutto il mondo occidentale,è la spia della neutralizzazione della politica e dell’emarginazione dei suoi organi rappresentativi, che rendono rituale e ininfluente l’espressione del voto. Le forme popolari delle democrazie sono di nuovo sotto attacco, come ai tempi del fascismo.

Il neoliberalismo in questa nuova fase in cui l’impresa si fa Stato,lascia “intatte” le forme dello Stato di diritto, ma svuota “la linfa vitale che animava la democrazia”. Il diritto non viene intaccato nella sua procedura, ma non risulta più orientato dal suo “nomos” originario, il contenuto di giustizia.

Eppure, le forme dello Stato liberaldemocratico sono ancora in piedi e da esse si può ricostruire un senso comune che contrasti la deriva nichilistica del tardo neoliberalismo a partire dalla ripresa del conflitto sociale e dei soggetti collettivi che ne sono stati protagonisti nel Novecento.

Nelle ultime pagine, Iannello ci invita a difendere, insieme a questi principi, anche il primato dell’”umano” e delle sue finalità: l’ultima fase del neoliberalismo, quella dei giganti dell’economia che si fanno Stato è la stessa del connubio tra tecnica senza controllo e assenza di valori, quel nichilismo che ora, a saggio concluso, è davanti agli occhi di tutti e che è già guerra.

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