di Antonio Salvati

Oliver Sacks è stato tante cose, soprattutto un neurologo e un accademico britannico di prestigio. Molti di noi lo conoscono e lo ricordano per i suoi best seller come Risvegli (dal quale è stato tratto un celebre film nel 1990 con Robin Williams e Robert De Niro) e L’uomo che scambio sua moglie per un cappello. Ha avuto il merito di rendere familiare al grande pubblico una materia complessa e misteriosa come la neurologia. Scelse, infatti, la forma letteraria come il più efficace strumento per raccontare la sua esperienza e la sua particolare visione dei disturbi mentali. Una vita dedicata alla scienza, ma anche ai suoi pazienti. Nato a Londra, figlio di medici di origine ebraica, ha anch’esso esercitato la professione di medico negli Stati Uniti. Sempre negli USA divenne anche professore di neurologia e neurologia clinica.

Tuttavia, potremmo dire senza esitazione che per meglio comprendere chi sia stato Oliver Sacks occorre leggere un libricino Gratitudine, uscito nel 2016 (Adelphi pp. 59 € 10), in cui sono raccolti quattro brevi saggi, scritti negli ultimi mesi della sua vita e che inviò lui stesso al New York Times. In uno di questi saggi, La mia vita, rivelò ai lettori di essere di essere ammalato terminale di cancro. Un modo sobrio per prendere congedo dal suo pubblico e dalla sua vita, seppur con una serenità decisamente impressionante: «Negli ultimi giorni sono riuscito a considerare la mia vita come da una grande altezza, quasi fosse una sorta di paesaggio, e con una percezione sempre più profonda della connessione fra tutte le sue parti. Questo non significa che io abbia chiuso con la vita».Soprattutto sostiene: «Non posso fingere di non avere paura. La mia attuale sensazione predominante, però, è di gratitudine. Ho amato e sono stato amato. Mi è stato dato tanto e qualcosa ho restituito. Ho letto e viaggiato e pensato e scritto. Ho avuto una relazione col mondo, quella speciale relazione tra scrittori e lettori. Soprattutto, sono stato un essere senziente, un animale pensante di questo splendido pianeta, ed è stato un enorme privilegio e un’immensa avventura».

Non pochi autori e pensatori hanno trattato il tema della gratitudine; da Stefan Zweig a Frank Kafka, da Etty Hillesum ad Albert Camus, da Vasilij Grossman a Hannah Arendt e soprattutto Emmanuel Levinas. I tempi difficili nei quali viviamo rendono sempre più̀ raro sentire una persona esprimere gratitudine. Magari non tra i bambini, tra gli adulti è più difficile trovare quel “sentimento di profonda riconoscenza” che, in realtà̀, è qualcosa – direbbe il vescovo Nunzio Galantino – di più̀ intimo e profondo della riconoscenza.

La gratitudine scaturisce di solito dalla memoria di un cuore toccato da meraviglia grande per un bene ricevuto, e si accompagna sempre a una profonda felicità. «La gioia è la forma più̀ semplice di gratitudine», affermava il teologo protestante Karl Barth. Ne è capace solo chi è umile, chi sa che la propria vita è inscindibilmente legata a quella degli altri. Cicerone affermava che «la gratitudine è non solo la più̀ grande delle virtù̀, ma la madre di tutte le altre», perché́ da essa dipende la possibilità̀ di cambiare il modo di agire nel mondo insieme agli altri. In altri termini, potremmo sostenere che la gratitudine nasce da un’attitudine a coltivare sentimenti buoni verso la realtà, per quanto difficile essa sia. La gratitudine risulta così una virtù connaturata all’esperienza umana, che non ha nulla a che fare – come sostiene il teologo Giannino Piana – con lo scambio equivalente o vantaggioso proprio della logica del mercato.

In questo frangente della vita, in cui la morte non è più un concetto astratto, ma una presenza vicina, impossibile da ignorare, Sacks riflette sulla vecchiaia, percependo «non una riduzione ma un ampliamento della vita mentale e della prospettiva», con l’impegno, nel breve tempo che gli resta, di «vivere nel modo più ricco, più intenso e più produttivo possibile». A ottant’anni si può guardare lontano e avere un senso della storia, «intenso e vissuto, impossibile quando si è più giovani. Adesso riesco a immaginare che cosa sia un secolo, riesco a sentirmelo nelle ossa; quando avevo quaranta o sessant’anni non potevo fare altrettanto». Non pensa alla vecchiaia come a un’età sempre più triste che in un modo o nell’altro va sopportata facendo buon viso a cattivo gioco, «ma come a un periodo di libertà e senza impegni, svincolato dalle artificiose urgenze del passato, in cui sono libero di esplorare quello che voglio e di legare tra loro i pensieri e i sentimenti di tutta una vita».

Sacks si dispiace «di aver perso (e di continuare a perdere) moltissimo tempo; mi dispiace di essere tormentosamente timido a ottant’anni proprio come lo ero a venti; mi dispiace di saper parlare solo la mia lingua materna, e di non aver visitato o conosciuto altre culture come avrei dovuto. Sento che dovrei provare a dare un compimento alla mia vita, qualsiasi cosa significhi “dar compimento a una vita”. Nunc dimittis, dicono alcuni dei miei pazienti, dopo aver varcato la soglia dei novanta o anche dei cento anni: “Ho avuto una vita piena, e adesso sono pronto ad andarmene”».

La consapevolezza che non siamo completamente nel dominio incontrastato della violenza e del male ci aiuta a discernere la varietà complessa delle situazioni. È quanto afferma Sacks al termine del volume cercando di ricordare e perpetuare la bellezza della propria vita: «Adesso – debole, con il fiato corto, con i muscoli un tempo sodi consumati dal cancro – scopro che i miei pensieri, invece di fissarsi sul soprannaturale o sullo spirituale, si appuntano sempre più spesso su che cosa si intenda quando si parla di vivere una vita buona e degna, di raggiungere la pace dentro di sé. Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno del riposo, il settimo giorno della settimana e forse anche della propria vita, quando uno sente d’aver fatto la sua parte e può, in coscienza, abbandonarsi al riposo».

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