di Giovanni Capurso

La nascita di “Humanitas” nel 1911 non fu casuale. Questo periodico, espressione del filone meridionalista e democratico, si fece interprete delle istanze di partecipazione politica delle classi subalterne ed emergenti del Sud in un periodo di rapide trasformazioni economiche e sociali.

Nel panorama nazionale il settimanale “Humanitas” costituì un’eccezione, ma, allo stesso tempo, in un periodo di fibrillazione editoriale, come riporta Nicola Fanizza nella sua brillante biografia su Piero Delfino Pesce, fu figlio di una fusione di «due punti estremi della penisola» (Piero Delfino Pesce. Un intellettuale europeo, Progedit, Bari 2024): Terenzio Grandi, operaio, fondatore della torinese “La ragione della domenica”, sprovvisto dei mezzi economici adeguati ma anche dello spessore culturale dell’intellettuale  molese, decise di far confluire la propria rivista in quella di quest’ultimo.

Attraverso un importante scavo archivistico e senza mai sganciarlo dalla sua creatura, “Humanitas” appunto, Nicola Fanizza ci consegna un’immagine di Delfino Pesce poliedrica: da autore di commedie a giornalista; da poeta a novelliere, critico letterario, musicista, pittore e botanico; da docente presso le università popolari a filosofo della politica; da fiero combattente contro la privatizzazione dell’Acquedotto Pugliese.

La rivista di Delfino Pesce, nata nel contesto del dibattito intorno alla guerra coloniale in Libia, attirò da subito la collaborazione di protagonisti del dibattito politico e culturale dell’epoca di estrazioni culturali e ideologiche molto eterogenee come radicali, socialriformisti, repubblicani, cattolici e, dopo la Grande Guerra, ex combattenti. “Humanitas” così caratterizzò la vita culturale regionale, con propaggini nei circoli democratici di Torino e Milano, sino alla forzata chiusura nel 1924 in conseguenza dell’azione repressiva del fascismo. Tra questi intellettuali meritano di essere menzionati i repubblicani Terenzio Grandi, Eugenio Chiesa, Napoleone Colajanni e altri con una collocazione politica e ideologica meno definibile come Alfonso Leonetti, Mario Gioda, Dino Fienga, Tommaso Fiore, Alfredo Violante, l’economista Giovanni Carano Don Vito e infine poeti e letterati come Anton Giulio Bragaglia, Franco Meriano, Enrico Cadile e il poeta armeno esule a Bari Harand Nazariantz.

Questa ampia adesione alla nuova rivista fu anche possibile perché Delfino Pesce, fin dalla sua comparsa, cercò di orientarla verso un “neorepubblicanismo” capace di rileggere in maniera moderna l’ideologia mazziniana: una concezione repubblicana che porterà, almeno in Puglia, al superamento definitivo della vecchia contrapposizione tra intransigenti e transigenti di stampo post risorgimentale.

L’intellettuale di Mola, non a caso, si staccò dal suo maestro Giovanni Bovio, per una visione moderna ed articolata dello Stato e della società, e, pertanto, meno generica e fumosa, più lucida e concreta. Piero Delfino Pesce, pur facendo propria un’impostazione mazziniana e repubblicana, cercò di collocare il suo periodico in un campo di libera discussione, dove non erano ammessi ostracismi o preclusioni verso nessuno. Così invitò a collaborare materialisti e idealisti, atei e credenti, marxisiti e liberali, sindacalisti e democratici di varia estrazione e formazione. In tal senso era evidente l’intento del fondatore di “Humanitas” di “sprovincializzare” la Gazzetta barese.

La rivista, negli anni dell’età giolittiana caratterizzati da una forte corruzione, ebbe il merito di non cedere a compromessi opportunistici di alcun genere e di non piegarsi all’esigenza di democratiche misure o a proposte di convenienza provenienti dal potere politico.

Rispetto a un periodico come “L’Unità”, nato nello stesso periodo, la rivista di Delfino Pesce, non ebbe un respiro nazionale, se intendiamo con questa accezione una diffusione capillare sul territorio italiano, ma tra i suoi lettori ed estimatori vantava figure di prim’ordine come Antonio Gramsci e Gian Pietro Lucini.

Tramite il giornale repubblicano, Pesce e i suoi collaboratori, parteciparono con grande attenzione a tutte le vicende e le discussioni che attraversarono l’opinione pubblica nei primi due decenni del XX secolo; anzi, per il direttore il rapporto con le espressioni più innovative della cultura e dell’arte nazionali, nonché con il pensiero politico e economico, era fondamentale in vista di un’azione politica progressista in Terra di Bari.

Riprendendo il filone del meridionalismo democratico, prima e durante la guerra, “Humanitas” colse, nella sua denuncia contro la corruzione e il “mazzierismo”, i processi di disgregazione dei vecchi partiti ed il disfacimento del tessuto civile accelerato dai metodi giolittiani di gestione amministrativa e dall’intreccio fra affarismo locale e capitale finanziario settentrionale. Sebbene alcune delle battaglie del giornale potessero sembrare donchisciottesche, il suo radicalismo espresse le posizioni del ceto medio intellettuale progressista legato a prospettive di democrazia rurale.

 

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