di Giuliano Laccetti

«La terra adda iesse re chi la fatìga, senza tasse e affitti». Questa frase, attribuita a una donna povera e “ignorante” di Marsicovetere nel romanzo “Tenebra 1862”, di Marco Lapegna, colpisce immediatamente per la sua forza evocativa. La terra ai contadini! La tierra para quien la trabaja! Sono slogan che risuonano nella memoria storica dei movimenti socialisti e rivoluzionari, ripetuti con speranza nei decenni. Perfino il programma del fascismo negli anni 1920-1921, contemplava, seppur fugacemente, una simile rivendicazione — come amaramente ricordano i protagonisti del film La marcia su Roma, interpretati da Gassman e Tognazzi, delusi da promesse tradite. Le stesse promesse furono deluse per migliaia di braccianti del Sud, spesso analfabeti e disperati, che accolsero con entusiasmo l’arrivo di “Canibardu” o di “Caribbaddi” (a seconda delle varianti locali), che prometteva “la terra a chi la lavora”. Una promessa mai mantenuta, sabotata da inganni, sotterfugi, ostacoli strutturali e volontà politiche ostili.

Marco Lapegna, autorevole professore di Informatica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, non è nuovo al confronto con la scrittura narrativa. Quest’ultimo suo lavoro, Tenebra 1862, è un romanzo storico in forma di noir, ambientato nel piccolo paese lucano di Viggiano, situato nella Val d’Agri, oggi nota per essere una delle aree maggiormente sfruttate dalle compagnie petrolifere: si tratta infatti del più grande giacimento petrolifero su terraferma d’Europa. L’azione si svolge nell’anno 1862, nel pieno dei primi e convulsi mesi della nuova unità nazionale, quando il Regno d’Italia era ancora un’entità fragile e contestata.

Protagonista della vicenda è un commissario di polizia napoletano, Gaetano Casagrande, già stimato investigatore sotto il regno borbonico, che, con disciplina e senso dello Stato, viene assegnato come delegato di polizia del neonato governo sabaudo proprio a Viggiano. Il suo compito ufficiale è quello di contrastare la presunta connivenza tra la popolazione civile e le bande di briganti che infestavano quelle contrade, come del resto l’intero Mezzogiorno. La repressione delle bande armate era affidata all’esercito, mentre ai delegati di pubblica sicurezza spettava la gestione dell’ordine pubblico e l’indagine su episodi criminali avvenuti nei piccoli centri abitati, spesso abitati da poche migliaia di anime.

Il romanzo mette in luce una verità storica troppo spesso trascurata: la tendenza sistematica ad attribuire ogni episodio di violenza, ogni delitto o sopruso, ai “briganti”, rappresentati come un flagello sociale e una minaccia all’ordine costituito. Eppure, dietro tali episodi, si celavano frequentemente faide personali, regolamenti di conti, crimini legati ad interessi familiari, di casta o economici — delitti che nulla avevano a che vedere con il brigantaggio. In molti casi, le violenze più efferate erano perfino organizzate o eseguite da agenti al soldo dello Stato, con l’intento di alimentare nella popolazione l’odio verso le bande ribelli e giustificare così una repressione ancora più spietata.

Si tratta di una strategia cinica e manipolatoria che, purtroppo, conserva analogie con pratiche politiche contemporanee. Penso, ad esempio, a un parallelismo significativo: quello tra le operazioni criminali e truffaldine delle autorità post-unitarie italiane per mettere in cattiva luce i briganti, e le accuse rivolte a certi settori del governo israeliano, che, attraverso ambigue relazioni con Hamas, avrebbero permesso e favorito di fatto, non impedendo finanziamenti, azioni terroristiche, al fine di rafforzare l’odio verso i palestinesi in generale, più che verso Hamas stesso. Questa mia analisi vuole sottolineare il tremendo e criminale uso della violenza da parte del potere come strumento di consenso e controllo.

Nel romanzo, sarà proprio il delegato Casagrande a smascherare questi inganni. Attraverso una rigorosa indagine, egli porta alla luce le vere responsabilità di crimini attribuiti ai briganti, ma in realtà commessi da esponenti della nobiltà e della borghesia locali (o sgherri pagati da loro). Uomini rispettabili all’apparenza, ma capaci di uccidere per denaro, per orgoglio, o per salvaguardare gli interessi delle proprie famiglie.

Tenebra 1862 è dunque un’opera di narrativa che riesce a intrecciare con intelligenza la suspense del noir con una ricostruzione storica puntuale e partecipe. È un libro che contribuisce, con voce limpida, a riportare l’attenzione sulle profonde ferite lasciate dal processo di unificazione, visto dalla prospettiva meridionale. Un romanzo che merita di essere letto, discusso e soprattutto compreso, perché illumina, attraverso la finzione, molte verità ancora oggi rimosse o marginalizzate nel racconto ufficiale della nostra storia nazionale. Infatti, se, negli anni della mia infanzia, i sussidiari della scuola elementare e i testi di storia della scuola media presentavano il brigantaggio in modo sbrigativo e semplicistico, come il vano tentativo di riportare sul trono Francesco di Borbone, esule a Roma, e come copertura per le efferatezze di criminali comuni dediti alla violenza più brutale, la storiografia più avveduta e autorevole ha ormai ristabilito la complessità storica, sociale e politica di quel fenomeno. Oggi è ampiamente condiviso che il brigantaggio debba essere interpretato non soltanto come una sommatoria di atti delinquenziali, ma come un articolato movimento di resistenza, portatore di istanze radicali, spesso connotate da tratti rivoluzionari. In molte aree del Mezzogiorno, quelle bande armate hanno rappresentato la disperata protesta contro l’imposizione di un potere nuovo, vissuto come estraneo, calato dall’alto, lontano dalle reali esigenze delle popolazioni locali, incapace di realizzare le promesse di libertà, riscatto dalla miseria, riforme agrarie e giustizia sociale. Insomma, in quegli anni si combatté una vera e propria guerra civile.

Questa lettura non è recente: già nel XIX secolo, sia pure in forma diversa, più “romantica” forse, affiorava in opere come “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, che mette in scena il dramma delle classi subalterne, contrapposto alle illusioni e agli ideali di un’unità nazionale che finisce per sancire nuove e più profonde fratture sociali. La narrazione di Nievo coglie la rottura dei vecchi equilibri comunitari, la delusione cocente per il mancato riconoscimento delle istanze popolari, e in tal modo si fa interprete, in anticipo sui tempi, di quella che oggi chiameremmo una “storia dalla parte dei vinti”. A questa tradizione si iscrive anche il romanzo storico “L’eredità della Priora” di Carlo Alianello, pubblicato nel 1963, che racconta le vicende del Meridione tra il 1861 e il 1862, ponendo al centro proprio il punto di vista degli sconfitti e il dramma del brigantaggio. Romanzo-faro per i miei gusti.

Antonio Gramsci, nei suoi scritti sull'”Ordine Nuovo”, inserisce il brigantaggio nel quadro più ampio della questione meridionale, definendolo una reazione, sia pur confusa, delle masse contadine alla nuova oppressione borghese e centralista, un riflesso delle contraddizioni profonde e delle disuguaglianze generate dal processo unitario. Per Gramsci, non si trattava di un fenomeno accidentale o criminale, bensì di un’espressione autentica, seppure disperata e disordinata, di resistenza popolare.

Altri storici, invece, mettono in luce l’aspetto politico più esplicitamente controrivoluzionario del brigantaggio, inteso come strumento della reazione borbonica, un vero e proprio braccio armato utilizzato per tentare di sovvertire l’ordine politico unitario nascente. Marco Lapegna, in “Tenebra 1862”, accenna a entrambe le interpretazioni, senza mai escluderle a vicenda. Il protagonista nel romanzo smaschera le complicità dei “galantuomini” del vecchio regime, scoprendo al contempo la carica di protesta sociale dei briganti e il loro radicamento in secoli di fame, diseguaglianza e umiliazione.

Tenebra 1862 si configura come una sorta di ideale continuazione del precedente romanzo di Lapegna, “Inferno 1860”, dove già compariva il personaggio del delegato Casagrande, allora ispettore di prima classe della polizia borbonica, intento a indagare su una serie di delitti in una Napoli inquieta e crepuscolare, alla vigilia dell’ingresso di Garibaldi. In quella Napoli brulicante di umanità, caotica, dolente, disordinata e segnata da un senso di declino imminente, Casagrande assiste con amarezza al passaggio dei poteri dell’ordine pubblico nelle mani della camorra, per volontà del ministro Liborio Romano, che scavalca i funzionari borbonici per compiacere i nuovi padroni sabaudi.

Già in Inferno 1860 e, ancor prima, ne “Il posto dell’anima”, ambientato in una Napoli contemporanea, Lapegna aveva mostrato un’eccezionale competenza nella restituzione della topografia e della toponomastica cittadina, con uno sguardo colto e appassionato, capace di evocare luoghi, atmosfere, percorsi di grande valore evocativo. In Tenebra 1862 l’autore offre al lettore una mappa storica dettagliata della cittadina e dei luoghi chiave del racconto, frutto di una rigorosa documentazione archivistica.

A differenza della Napoli brulicante di gente e tumultuosa di “Inferno 1860”, la Viggiano di Tenebra 1862 è un luogo quasi sospeso nel tempo, raccolto, silenzioso, segnato da inverni rigidi e rigeneranti, da ampie vallate, da camminate solitarie e riflessive, da osterie dove ci si conosce tutti e si condividono pietanze e racconti. Chi conosce la Basilicata può facilmente riconoscere nei cibi gustati da Casagrande e dai suoi interlocutori (giovani agenti, medico, farmacista, professore…) i sapori autentici di una cucina semplice e schietta, che fa parte integrante della cultura e della narrazione del luogo.

L’indagine di Casagrande si svolge su due livelli: da un lato la ricostruzione metodica e razionale dei delitti e delle dinamiche criminali, dall’altro una ricerca più intima e personale sulle cause profonde del disagio sociale, dell’ingiustizia, della violenza e della speranza che animano sia i briganti sia la popolazione civile. La sua è anche una riflessione esistenziale, nutrita da esperienze familiari dolorose, che lo porta a interrogarsi sulle molteplici dimensioni della vita: la violenza, la miseria, la felicità, il coraggio, l’amore, la paura, il senso di comunità e la solitudine. Una ricerca che lo tocca nel profondo e che, pur coronata dal successo investigativo e, sembrerebbe, da una prestigiosa promozione, non lo lascia pienamente appagato all’idea di tornare a Napoli, e dalla amatissima moglie, dalla quale si era “allontanato”. Viggiano gli resta nel cuore. Tornerà?

Infine, una notazione sull’elemento petrolio. Con una felice intuizione narrativa, senza forzature e senza pretesa documentaria, Lapegna introduce quella roba, nera e oleosa e che rovina terra e acqua, tra gli indizi, le tracce, i moventi che Casagrande dovrà considerare.

Mia personalissima interpretazione: un anticipo simbolicodella violenza con cui il capitalismo industriale, già allora agli albori in altre parti del mondo, avrebbe travolto ogni equilibrio sociale e territoriale, imponendo logiche di violenza, “estrattive” e predatorie che non hanno risparmiato le terre del Sud. Di tutti i Sud del mondo. Un segnale che non sfugge a chi legge con attenzione la storia lunga della questione meridionale e i suoi non detti.

Marco Lapegna, “Tenebra 1862. Un noir meridionale”, Rogiosi Editore, 2025.

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