di Salvatore Lucchese
Riassunto
Sulla base del quadro storico-critico relativo al federalismo meridionale e meridionalista di fine ‘800 ed inizio ‘900, si illustrano nelle loro linee essenziali le riflessioni di Alfreo Niceforo, Napoleone Colajanni, Ettore Ciccotti e Gaetano Salvemini. Il primo, sostenitore di una singolare forma di federalismo razziale e gli altri tre, invece, promotori, sulla base della lezione di Carlo Cattaneo e del modello confederale svizzero, di un federalismo democratico teso all’emancipazione delle classi subalterne dell’Italia meridionale tanto sul piano socio-economico quanto su quello politico-culturale.
Parole chiave: Sud, Federalismo, Autonomia, Questione meridionale, Meridionalismo, Razzismo.
1. Il quadro storico-critico di riferimento
Sebbene i temi del federalismo, dell’autonomia, dell’autonomismo e del regionalismo rappresentino una costante del dibattito politico-istituzionale italiano (cfr. Petraccone, 1995), l’interesse storico-critico nei loro confronti è stato quasi sempre ridotto, marginale ed oggetto di diffidenze.
La ragione di ciò deve essere ricercata anche nell’“ostinata sopravvivenza della mitologia risorgimentale” (Ganci, 1989: 15), incentrata sull’esaltazione del modello statuale romano, in base al quale i termini “unità” e “Stato centralizzato” sono stati identificati sino a farli divenire sinonimi. A partire da questo paradigma giuridico-politico, le istanze autonomiste, regionaliste e federaliste, insieme alle corrispettive ricerche storiografiche, sono state bollate come eretiche, in quanto considerate una minaccia all’unità politica del Paese (Ibid.: 15).
Non è un caso che “la figura del nostro massimo pensatore federalista del XIX secolo, Carlo Cattaneo, sia rimasta troppo e troppo a lungo ‘fuori fuoco’, rispetto ai campi d’indagine di volta in volta di moda e più frequentati” (Gastaldi, 1989: 15) marginalizzando, così, le tesi dei “vinti”, che avevano inteso perseguire il comune ideale risorgimentale dell’unità nazionale contemperandolo con i valori della democrazia, della partecipazione e dell’autonomia.
Solo negli ultimi decenni, pur rimanendo un campo di studi minoritario, il pensiero di Carlo Cattaneo è divenuto oggetto di disamine storiografiche e base di riflessioni teoriche da parte di studiosi autorevoli (cfr. Lacaita, 1989).
Tuttavia, se si è assistito ad una rinascita degli studi su Cattaneo “sostanzialmente in ombra è rimasta la scuola di Cattaneo” (cfr. Gastaldi, 1989). Sebbene Gastaldi, sulla base di alcune ricerche incompiute di Pier Carlo Masini (1959), abbia posto in un suo intervento del 1989 l’esigenza di indagare più a fondo il tipo di ricezione cattaneana di volta in volta attuata, è significativo il fatto che egli, in quella occasione, non abbia annoverato tra gli esponenti della scuola di Cattaneo due eminenti intellettuali meridionali e meridionalisti, quali Napoleone Colajanni e Gaetano Salvemini, che pure si richiamarono direttamente ed esplicitamente alla lezione del pensatore lombardo e dei suoi discepoli settentrionali.
Questa esclusione è significativa, in quanto essa rivela una tendenza di fondo della storiografia sul federalismo: quella di non mettere sufficientemente in risalto il contributo che il pensiero politico meridionale pre- e postunitario ha offerto alla riflessione intorno ai temi dell’autonomia, del regionalismo e del federalismo. Tale tendenza, coerentemente al pregiudizio antimeridionale di un Sud conservatore, retrivo se non reazionario (cfr. Teti, 1993; De Francesco 2012), ha contribuito a generare l’idea che “il federalismo sia stato solo l’espressione di correnti di pensiero del Nord”. (Compasso, 1996: 1)
Solo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, in concomitanza il dibattito politico-istituzionale sui temi in oggetto culminato nella riforma del Titolo V della Costituzione, si è assistito ad una parziale riscoperta della tradizione federalista meridionale postunitaria grazie a contributi di studi e ricerche offerti negli ambiti della storia politica, della storia delle culture politiche e in quale della pedagogia civile. (cfr. Petraccone, 1995; La Puma, 2002; Lucchese 2006; 2012; 2023)
2. Federalismo e questione meridionale a cavallo tra ‘800 e ‘900
Innanzitutto, bisogna precisare che con l’espressione federalismo meridionale postunitario si indica quel complesso d’idee e progetti politici, di diversa e talora opposta matrice ideologica, incentrati sulla proposta di una trasformazione dello Stato monarchico-liberale in senso repubblicano, democratico e federale.
Infatti, l’accentramento burocratico-amministrativo fu considerato dai principali esponenti delle correnti meridionaliste di orientamento repubblicano, democratico e socialista il principale responsabile dell’acuirsi del divario socio-economico e politico-culturale tra le regioni del Nord e quelle del Sud d’Italia. Dunque, tale proposta fu formulata a cavallo tra Ottocento e Novecento in funzione sia della soluzione della questione meridionale, la cui caratteristica precipua, rispetto ai problemi connessi alle zone arretrate di altri Stati, consta nella sua dimensione nazionale, ovvero nel fatto che essa ha influenzato, a volte in modo decisivo, l’evoluzione politica ed economica dell’Italia, mentre altri fenomeni di depressione non hanno influito che in modo impercettibile sul processo di generale sviluppo dei singoli paesi (Villari, 1964: 7); sia in funzione dello sviluppo socio-economico e politico-civile della sola Italia settentrionale.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il giovane criminologo siciliano Alfredo Niceforo, nei suoi saggi sulla questione meridionale (Niceforo, 1897; 1898; 1901) riprese le teorie della scuola antropologica di Cesare Lombroso per spiegare l’arretratezza e il carattere primitivo del Sud d’Italia in base alla distinzione razziale e razzistica della popolazione italiana in arii ed italici. Secondo Niceforo, le differenze razziali intercorrenti tra settentrionali e meridionali si riflettevano anche nelle diverse psicologie delle due popolazioni: tanto laboriosi, onesti, solidali e cooperativi i primi, quanto violenti, sudici, oziosi ed individualisti i secondi.
Dalla presunta dimostrazione scientifica dell’esistenza delle “due Italie”, Niceforo traeva la ferma condanna del sistema politico-amministrativo centralizzato introdotto in Italia dopo il processo di unificazione risorgimentale.
La proposta politica indicata dal giovane studioso siciliano per evitare che l’arretratezza del Mezzogiorno e l’inferiorità antropologico-razziale delle sue genti bloccasse i processi di modernizzazione complessiva dell’intero Paese si presentava nei termini di “una forma di federalismo molto singolare, e non solo per il suo fondamento razziale” (Petraccone, 1986: 122).
Infatti, la sua richiesta di autonomia e decentramento riguardava le sole popolazioni settentrionali, mentre per le società primitive del Mezzogiorno era a suo parere necessario un governo dittatoriale.
In chiara e netta polemica con la scuola antropologica di Cesare Lombroso, Napoleone Colajanni (1885; 1887; 1889; 1898; 1898; 1898), richiamandosi direttamente alla lezione di Cattaneo e dei suoi discepoli settentrionali, elaborò un progetto di natura federalista, che progressivamente andò calando nel vivo del dibattito meridionalista, difendendo le istanze autonomiste espresse dal movimento dei Fasci siciliani.
Nel saggio giovanile le Istituzioni municipali (1983), lo studioso siciliano individuò nel Comune l’incarnazione del principio di libertà. Tuttavia, dopo l’unificazione i municipi – sottolineava Colajanni – erano divenuti delle paludi rigidamente controllate dal potere centrale. Solo una serie di riforme atte a stimolare il progressivo e cosciente inserimento delle masse nella gestione della cosa pubblica avrebbe recuperato il carattere originario dei Comuni Italiani.
In effetti, lo studioso siciliano affidava il compito di rigenerare la vita politica, economica, sociale e morale del Sud d’Italia all’avvento di una libera repubblica federale, la sola forma statuale capace di porre termine al rapporto di asservimento e corruzione che legava le popolazioni meridionali al potere centrale e alle clientele locali. Il rigido centralismo monarchico-liberale, a suo parere, aveva sfavorito il Mezzogiorno, contribuendo alla sua oppressione da parte del Settentrione.
Per quanto concerne la teoria della razza maledetta, secondo lo studioso siciliano, non era niente altro che una giustificazione ideologica delle politiche di sfruttamento e spoliazione a cui il Meridione agricolo era stato sottoposto dal Nord industriale dopo l’unità (1898).
Sempre alla fine dell’Ottocento, in una clima di forte repressione ed aperta reazione, il socialista Ettore Ciccotti contrappose alla proposta di decentramento amministrativo calato dall’alto un’ipotesi di innovazione politico-istituzionale di matrice federalista, incentrata sul modello della federazione elvetica (1899).
Nello studiare la costituzione federale allora in vigore, che risaliva a 1874, Ciccotti ebbe modo di constatare che il progresso sociale, economico, politico e culturale di un paese pressoché privo di materie prime e fonti di energie era stato assicurato dal patto federale, capace di conciliare l’unità con il rispetto delle autonomie e la promozione delle principali libertà politiche e civili.
Nel 1904, lo storico lucano rilanciò la sua proposta federalista in chiara polemica con le leggi speciali per le diverse aree del Mezzogiorno. Soltanto un processo federativo costruito dal basso attraverso la fattiva e costruttiva partecipazione delle masse popolari alla gestione della cosa pubblica avrebbe potuto spezzare i legami tra le forze conservatrici nazionali e le consorterie locali, rinnovando, così, la vita sociale economica, politica e culturale non solo del Sud d’Italia ma dell’intero Paese (1904).
A cavallo tra Otto e Novecento, anche per Gaetano Salvemini il federalismo costituì il principale rimedio ai mali che travagliavano il Meridione. Richiamandosi direttamente alla lezione di Marx, Cattaneo, Ferreri e a Proudhon, il giovane studioso pugliese propose la soluzione federalista fondata sull’autonomia comunale in contrapposizione al regionalismo delle contese grette e pettegole, come il principale strumento per riequilibrare i rapporti economico-finanziari tra Nord e Sud.
Tuttavia, Salvemini concepì prevalentemente il federalismo come lo strumento politico grazie al quale cementare l’alleanza tra operai settentrionali e contadini meridionali in contrapposizione al blocco reazionario formato dagli industriali del Nord e gli agrari del Sud (1955).
La proposta salveminiana aveva il merito di infrangere il riduzionismo economicistico allora imperante nel campo socialista per prospettare in chiave progressista un processo di emancipazione del Mezzogiorno, che pur assumendo come fondamentale la prospettiva marxiana della lotta tra classi, non si limitava a teorizzare e praticare la semplice contrapposizione dei rapporti di forza – il blocco operaio-contadino versus il blocco agrario-industriale – ma si sforzava di cogliere nel processo d’innovazione politico-istituzionale il momento fondamentale per garantire l’autogoverno delle masse meridionali, vera base questa per la rinascita complessiva del Sud d’Italia (cfr. Borrelli, 2002; Suppa 2002).
Infatti, come è noto, una delle cause del permanere dell’arretratezza del Mezzogiorno fu l’egemonia dei latifondisti, che si opposero sempre a qualsiasi intervento volto a modificarne le strutture di produzione.
Il federalismo, come compresero Colajanni, Ciccotti e Salvemini, avrebbe potuto porre un rimedio a questo stato di cose, costituendo una risorsa fondamentale per l’innovazione politico-istituzionale del Paese, che, a sua volta avrebbe potuto favorire la maturazione politica delle masse rurali, le quali, insieme ai piccoli proprietari terrieri, erano direttamente interessate, per la posizione da loro occupata nei rapporti di produzione, all’attuazione di quelle riforme necessarie per lo sviluppo del Mezzogiorno.
Quindi, il federalismo non si configurava come una proposta meramente formale, ossia come la semplice contrapposizione di un certo tipo d’istituzioni ad un altro tipo d’istituzioni (Salvadori, 1981: 212), ma si configurava come la soluzione politica idonea a risolvere un problema di natura politica, frutto della consapevolezza del nesso che intercorre tra la struttura sociale, l’ordinamento istituzionale e le linee politiche da attuare.
Certo, le masse contadine meridionali non possedevano quel grado di maturità politica necessario all’autogoverno, ma è anche vero che esse, come dimostra il movimento dei Fasci siciliani, in quel periodo, sotto la spinta della diffusione delle idee socialiste, iniziarono ad organizzarsi, e in questo modo, a sperimentare, anche se in modo convulso e contraddittorio, le prime forme moderne d’attività politico-sindacale.
L’accentramento burocratico-amministrativo non favorì lo sviluppo di queste tendenze, anzi, come si è visto, essendo il principale strumento dell’egemonia del blocco storico, contribuì a reprimere i movimenti rivendicativi dei lavoratori meridionali, che furono ridotti ad uno stato di sfiducia, fatalità e disgregazione sociale. Come è stato osservato:
La repressione infliggeva un’ulteriore profonda ferita al rapporto fra potere pubblico e popolazioni, le quali, evidentemente, impedite di sperimentare una forma moderna di attività sindacale e politica, di educarsi ad una visione più larga dei rapporti collettivi, erano risospinte a pensare che oltre il ristretto cerchio della famiglia e della parentela la restante società era un mondo infido e pieno di insidie e lo stato un nemico armato (Bevilacqua, 1993: 84).
Di contro, il federalismo, così come all’epoca fu formulato, probabilmente avrebbe consentito alle masse meridionali di rafforzare le loro iniziali e contraddittorie spinte all’organizzazione e al protagonismo politico, vera base, questa, per la rinascita del Mezzogiorno.
In sostanza, l’ordinamento federale non deve essere considerato esclusivamente come la “conclusione politica d’una società assai evoluta su un piano economico” (Salvadori, 1982: 323), ma deve essere considerato anche come l’ordinamento istituzionale capace di porre le condizioni politiche per la crescita complessiva di un paese.
È proprio sulla base della consapevolezza del nesso che intercorre tra struttura sociale – forma delle istituzioni – contenuto della politica, che si afferma ciò, mentre il giudizio opposto sembra essere piuttosto il frutto di un paradigma storiografico di tipo economicistico, che si preclude la comprensione del rapporto d’interazione che intercorre tra la “struttura” e la “sovrastruttura”. Non è un caso che tale impostazione sul piano politico con
Il discorso sull’arretratezza economico-sociale del meridione – diventato l’argomentazione principale di contestazione da parte della sinistra e comunque esasperato oltre le concrete dimensioni delle difficoltà dello sviluppo dei diversi settori economici – ha avuto effetti di copertura e di svalutazione delle possibilità del mezzo politico, istituzionale e riformatore, in quanto strumento di apertura democratica e innovativa per il sud della penisola. Nella storia del meridionalismo […] la forma politica dell’accentramento da parte del governo nazionale ha operato sempre in modo da lasciare ai governi locali funzioni riduttivamente amministrative: per la conquista dell’esercizio di questi poteri amministrativi si sono cimentati con funzionale competizione gruppi e corpi organizzati diversamente motivati. In breve, nel meridione si è cercato di limitare fortemente la produzione del governo politico come scaturente dai cittadini, mentre lo strumento politico è stato assegnato di volta in volta a soggetti che in numero ristretto hanno governato con eccesso amministrativo, imponendo alla società una condizione di separatezza agli strumenti di decisione politica ed attivando dispositivi di permanente e funzionale frantumazione del legame sociale (Borrelli, 2002: 218.
In conclusione, la dimensione di conflittualità intrinseca al federalismo meridionale ci offre la possibilità di concepirlo come il precipitato teorico di lotte, contestazioni e rivolte che attraversarono il Mezzogiorno postunitario.
In altri termini, il federalismo meridionale può essere considerato come il tentativo di dare una risposta politica alla distanza incolmabile, alla contrapposizione, ora palese ora dissimulata, tra contadini, pastori e pescatori meridionali da un lato e Stato unitario dall’altro.
Questa chiave di lettura rappresenta anche uno stimolo a costruire un percorso di ricerche che non sia incentrato soltanto sull’analisi degli aspetti teorici del federalismo meridionale, ma vada anche oltre, per cogliere, e ricostruire genealogicamente ed intersezionalmente, l’identità, la memoria ed i saperi, spesso dequalificati, di quelle soggettività sofferenti, oscillanti tra lotte e rivolte, cui i teorici del federalismo meridionale postunitario vollero dare uno sbocco innovativo, costruttivo e propositivo sul piano politico-istituzionale.
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