di Giuliano Laccetti

“I college hanno ricevuto per decenni soldi dei contribuenti, e questa cosa deve finire”. Sono le parole pronunciate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump pochi giorni la sua vittoria. Ecco, basterebbe questo a far capire l’atteggiamento di Trump e della sua amministrazione nei confronti della istruzione, della cultura, del sapere, della scienza.

Le università americane tradizionalmente hanno rappresentato spazi in cui confluiscono idee diverse, promuovendo il pensiero critico e il libero scambio di opinioni. Tuttavia, negli ultimi anni, la crescente polarizzazione politica ha reso questi luoghi anche terreno di scontro ideologico. Già a partire dalla prima amministrazione Trump (2017–2021), la retorica politica si era fatta strumento di critica verso il sistema universitario, accusato di essere intrinsecamente “left-wing” e incline a promuovere ideologie ritenute “pericolose”.

Il Governo Federale con Trump ha mosso attacchi diretti contro istituzioni accademiche, adottando politiche di: tagli ai finanziamenti e ristrutturazioni burocratiche: una significativa riduzione di fondi destinati a programmi considerati troppo “ideologici” o “divisivi”, indirizzando l’attenzione verso progetti ritenuti più orientati al mercato e alla competitività internazionale.

Critiche al curriculum e alle pratiche didattiche: In particolare, ad esempio, riguardo all’insegnamento di materie come la storia, le questioni razziali e il genere. La spinta contro la cosiddetta “cancel culture” mirava a un rafforzamento di un’educazione “tradizionale” in contrapposizione a teorie critiche che esaminassero le strutture di potere e i meccanismi storici di marginalizzazione.

Nomine e cambiamenti normativi: Alcuni decreti e regolamenti (come le modifiche alle linee guida del “Title IX”, una legge federale che proibisce la discriminazione basata sul sesso in qualsiasi scuola o altro programma educativo che riceva finanziamenti dal governo federale) sono stati ritenuti in parte finalizzati a rivedere le modalità con cui le istituzioni affrontavano casi di molestie e discriminazioni, anche se tali cambiamenti venivano interpretati da alcuni osservatori come volti a limitare l’estensione delle rivendicazioni liberali nei campus.

Effetti sul reclutamento internazionale: Le politiche migratorie restrittive hanno influito non solo sulle dinamiche di iscrizione degli studenti internazionali ma anche sulla capacità delle università di attrarre talenti globali, elemento fondamentale per la competitività accademica e la diversità culturale dei campus.

Vorrei sottolineare, in estrema sintesi, alcuni punti che meritano attenzione.

Il mondo accademico ha reagito: innanzitutto con proteste e mobilitazioni studentesche, ma anche con il posizionamento di parecchie istituzioni universitarie per una maggiore libertà di pensiero, ed una metodologia di insegnamento che favorisse il pensiero critico. Alcune università hanno saputo adattarsi e rafforzare i propri programmi di ricerca e docenza, mentre altre si sono trovate in difficoltà nel mantenere un equilibrio tra risorse e libertà accademica.

Ridefinizione del ruolo pubblico della scienza e dell’istruzione: Il dibattito su che cosa significhi veramente “libertà accademica” ha spinto molte istituzioni a rivedere il proprio ruolo nella società, con un’attenzione maggiore a comunicare in modo trasparente e responsabile i risultati della ricerca.

Modelli di governance universitaria: Le università stanno sperimentando forme di governance più partecipative e resilienti, in grado di resistere a pressioni politiche e di garantire un ambiente di dibattito costruttivo e pluralistico.

Impatto internazionale e competitività: La reputazione degli Stati Uniti come leader nell’istruzione superiore è stata messa in discussione; di conseguenza, le istituzioni stanno rivalutando strategie per restare competitive a livello globale, anche attraverso collaborazioni internazionali e riforme interne che valorizzino la diversità di pensiero.

il mondo accademico statunitense in realtà ha reagito in maniera variegata agli impulsi e alle politiche dell’era Trump. Mentre istituzioni come Harvard e il MIT hanno adottato strategie interne volte a salvaguardare la libertà di ricerca e a rinvigorire il dialogo accademico, realtà in contesti come New York e San Francisco hanno evidenziato un attivismo crescente che ha portato a una ridefinizione dei confini tra libero pensiero e responsabilità sociale.

Questa trasformazione sta alimentando un dibattito profondo sulle modalità con cui le università possono e devono difendere la propria autonomia in un contesto di forte polarizzazione politica, contribuendo al contempo a mantenere il loro ruolo cruciale come centri di innovazione e di critica sociale.

La nuova presidenza Trump non sembra discostarsi da quanto fatto nella precedente, anzi, deciso (cosa inusuale, hanno fatto notare molti politologi) a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, anche quando palesemente contrarie a benessere, prestigio, vantaggio, utilità, per gli USA, sta peggiorando la situazione per il mondo accademico, da sempre, anche negli anni della guerra fredda, della guerra del Vietnam, etc., un punto di riferimento per democratici e liberals.

Il sistema universitario americano si trova oggi di fronte a un dilemma simile a quello che attraversa altri settori dell’establishment nazionale – pensate alle grandi corporation o agli studi legali. Da un lato c’è la tentazione di collaborare, trovare un compromesso per calmare le acque e tornare al “business as usual”; dall’altro, c’è l’approccio intransigente, un muro contro muro, che rischia di innalzare ulteriormente la tensione. I segnali attuali fanno propendere per la prima ipotesi: sembra infatti che molti esponenti dell’élite culturale ed economica stiano cercando di aprire un dialogo per limitare i danni, con la speranza di ritornare a un clima più consono agli Stati Uniti che conoscevamo prima di questa preoccupante torsione autoritaria.“Dobbiamo decapitare un ateneo di prestigio per farli rientrare nei ranghi”, ha detto Max Eden, ispiratore delle politiche “trumpiane”. In realtà una possibile risposta potrebbe essere, magari dopo il “cedimento” di una o due istituzioni, capire che una reazione comune di 10, 20, 100 istituzioni (università, studi legali, etc.) potrebbe limitare e/o bloccare le minacce e le azioni contro di esse! Negli ultimi giorni (15 aprile 2025) si sono intensificati gli appelli: Obama, ex studente di Harvard, ha esortato rettore (Alan Garber) e rettrice emerita (Drew Faust, prima donna rettrice di Harvard fino al 2018) a “resistere” e opporsi ai diktat e minacce di Trump e sodàli: potrebbe nascere una specie di “alleanza”, implicita, tra Columbia, prima università a dover sottostare alle richieste di Trump, e Harvard: i vertici della Columbia hanno assecondato le richieste governative, per non perdere 400 milioni di finanziamenti, ma docenti e studenti sono scesi “in piazza” a protestare”; i vertici di Harvard, invece, stanno resistendo (e rischiano 2,2 miliardi di dollari!). “Columbia e Harvard unite nella lotta”?

Ma quali sono le motivazioni dietro questo comportamento di Trump? Innanzitutto, c’è quella che si potrebbe definire una resa dei conti: l’amministrazione Trump si è posta in netto contrasto con tutti quelli che considera suoi nemici – giudici e ambienti critici che hanno messo in dubbio il suo operato nella precedente gestione. In questo scenario, il mondo universitario viene visto come un bersaglio da intimidire. Poi, non possiamo dimenticare il tentativo di fare qualcosa che faccia comodo alla base elettorale trumpiana, storicamente antintellettualista e populista. Infine, l’attuale amministrazione non si preoccupa minimamente del cosiddetto soft power, ossia di quella capacità che gli Stati Uniti hanno di esercitare prestigio e influenza attraverso mezzi diversi dalla forza. Le università americane sono state per lungo tempo un cardine di questo soft power, grazie alla loro abilità di attrarre i talenti migliori da ogni angolo del mondo. Per il governo attuale, sacrificare il prestigio e la forza attrattiva del sistema universitario non rappresenta un problema immediato – almeno, così si pensa. Resta però il dubbio che questa scelta possa portare a effetti indesiderati, indebolendo il prestigio e l’interesse nazionale degli Stati Uniti.

Ma non è tutto: le università sono sotto attacco anche sul merito. L’amministrazione Trump ha fatto circolare un vademecum di “parole proibite”, ovvero quelle parole e concetti che non devono comparire nei progetti di ricerca, pena la loro cancellazione. Tra questi termini figurano qualsiasi riferimento all’etnia e al genere, parte dell’ampia offensiva contro le politiche di diversità e inclusione. Non mancano nemmeno espressioni come “crisi climatica” e “ingiustizia”, considerate per l’attuale governo come strumenti per perpetuare una narrazione critica e antiamericana.

Si assiste così a un tentativo deciso di demolire intere aree di ricerca, da parte di un presidente che, nel suo discorso d’insediamento, aveva promesso di “riportare il free speech in America” – un concetto che, secondo lui, era stato messo in pericolo dai democratici. Lo storico Robert Proctor parla addirittura di una “età dell’oro dell’ignoranza”, un periodo in cui si combattono fatti e realtà consolidate come il cambiamento climatico e l’ingiustizia sociale.

Durante il mese di marzo sono esplose numerose manifestazioni nelle principali città americane, in risposta ai tagli alla scienza. La ricerca, infatti, ha sempre rappresentato un motore positivo per l’economia degli USA. Secondo Forbes, nell’anno accademico 2022/2023 un milione di studenti internazionali – accusati dalla Casa Bianca di togliere posti a ricercatori americani – hanno generato un indotto di ben 40 miliardi di dollari. Non sorprende, quindi, che da quasi un secolo gli Stati Uniti puntino a essere leader nell’attrattività accademica: fin dalla Seconda guerra mondiale, il paese ha iniziato a investire in maniera massiccia nella ricerca scientifica, una volta affidata solo ai benefattori privati. Dopo il conflitto, e grazie alle scoperte scientifiche che avevano contribuito alla vittoria, gli USA hanno deciso di proseguire su questa strada, potenziando centri di ricerca d’élite e investendo sempre di più nel portare sul suolo americano gli scienziati più promettenti – un sistema che ha prosperato fino ad oggi.

L’offensiva contro il sistema accademico da parte di questa amministrazione viene da lontano. Trump ha sempre detestato la ricerca, definito il mondo accademico come elitario e progressista e in questo ha supporto da parte del suo elettorato, galvanizzato dall’attacco a un sistema che percepisce come radicale e lontano dai valori conservatori.

A subire conseguenze devastanti non è stato solo il settore delle scienze sociali, con progetti legati alla riconsiderazione dei rapporti di etnia e genere negli Stati Uniti da sempre osteggiati dal mondo repubblicano, ma anche la ricerca medica: dei 400 milioni di dollari tagliati alla Columbia, 250 erano stati stanziati dal National Institutes of Health (NIH), un’agenzia federale responsabile dell’allocazione dei fondi per la ricerca biomedica. Chi lavorava a questi progetti ha ricevuto una mail che li informava della fine del loro studio per motivazioni di antisemitismo; a rischio cancellazione, come rileva Nature, sono anche progetti che vedono nel team ragazzi e ragazze ebree. Judd Walson, professore a Johns Hopkins, ha detto al Financial Times che ci troviamo di fronte a un collasso della ricerca sanitaria che potrebbe avere impatti generazionali. Sono stati infatti tagliati progetti di studio sulle fibrosi uterine, sul trattamento del cancro, dell’Alzheimer e del diabete.

In un altro caso, sono stati tagliati i fondi, che erano garantiti fino al 2026, a una ragazza che studiava i parassiti intestinali in India e Benin: aveva ricevuto i soldi grazie a un piano di diversity che aveva considerato il fatto che fosse la prima laureata della sua famiglia e una donna all’interno di un settore scientifico, genere da sempre sottorappresentato.

Eliminare la possibilità di assumere nelle università attraverso questi piani rischia di portare, in ultima analisi, a un’atrofizzazione del mondo universitario, alla fine della mobilità sociale e dell’attrattività statunitense e alla distruzione della ricerca indipendente. Non è un caso, infatti, che l’Europa si sia già mossa nel tentativo di accogliere i ricercatori definiti non grati dagli Stati Uniti, con Francia e Regno Unito in testa. L’università di Aix-Marseille si è dichiarata un «safe space per la scienza» e ha attuato un programma da 15 milioni di euro nell’arco di tre anni per portare quindici ricercatori americani di vari settori accademici a lavorare lì.

Ciò che stupisce è che l’amministrazione Trump sta smantellando un settore economicamente florido per gli Stati Uniti solamente per il disprezzo che nutre nei confronti della scienza, ritenuta espressione del mondo liberal. È paradossale il caso dello studio della tecnologia a mRNA, fondamentale per la moderna ricerca vaccinale e finanziata anche dalla precedente amministrazione Trump. È stato cancellato un progetto di ricerca della Columbia riguardante questa tipologia di vaccini e il National Institutes of Health ha richiesto ai ricercatori di eliminare qualsiasi riferimento dai progetti.

La base dell’offensiva contro questo tipo di ricerca è data da una postura contraria alla scienza del nuovo governo, che ha posto a capo del dicastero della Salute l’antivaccinista e complottista Robert Kennedy, che già nel 2021 aveva fatto una petizione perché venisse bandita la somministrazione di vaccini a mRNA.

Kevin Wang, professore associato di lingua e cultura cinese al New College of Florida di Sarasota, si è visto recapitare una lettera di licenziamento: l’università comunicava che il provvedimento «non si basa su alcuna cattiva condotta e non costituisce un licenziamento per giusta causa o un’azione disciplinare».

Invece, l’università si è giustificata citando la SB 846, una legge dello stato della Florida in vigore dal luglio 2023 che impedisce alle università dello stato di assumere «qualsiasi persona che sia domiciliata in un foreign country of concern e non sia cittadino o residente permanente legale degli Stati uniti». Un foreign country of concern è un paese straniero i cui cittadini sarebbero soggetti a restrizioni delle libertà individuali secondo il segretario di Stato degli Stati uniti d’America. Fra gli altri, la lista include Corea del Nord, Cuba, Iran, Russia, Nicaragua e Cina.

Infine, una testimonianza diretta: una mia amica scrive in una chat che ha la figlia che sta facendo un dottorato in una università della west coast, e ha ricevuto la richiesta, da parte della ragazza, di evitare di esporsi con dichiarazioni, post, commenti, sui media italiani, per non crearle eventualmente  problemi….in questi giorni stanno revocando alcuni visti J1 e F1 a studenti colti a manifestare o solo perché  hanno pubblicato qualcosa; hanno consigliato alla studentessa, inoltre,  di tenere un profilo basso e di stare molto attenta. La studentessa scrive di avere paura di essere allontanata, e chiede anche ai genitori di non esporsi per il rischio di ritorsioni (allontanamento dall’università). Si impedisce la libertà di pensiero, quando non si arrestano addirittura studenti per aver preso parte a manifestazioni o, in alcuni casi, senza neanche conoscere il motivo. Una situazione di regime dittatoriale, non consono alla “libertà” e democrazia che hanno costituito, in ogni periodo, pur quelli più difficili e controversi, la cifra fonda,mentale degli USA.

INFINE: È difficile immaginare che l’amministrazione Trump smetta di colpire le agenzie federali, soprattutto perché il programma di riduzione del personale dovrà essere completato entro la fine del 2025. Nel mentre, le nomine per i nuovi direttori di alcune agenzie si stanno ufficializzando proprio ora, e questo darà un’idea ancora più chiara dell’agenda scientifica che il nuovo governo intende seguire. Va anche considerato che molte delle iniziative contro le agenzie sono state finora bloccate dai giudici federali; ma presto questi casi arriveranno alla Corte Suprema, che dovrà decidere se il presidente degli Stati Uniti abbia davvero il potere di modificare o chiudere le agenzie, ignorando leggi che il Congresso aveva già approvato. D’altra parte, la comunità scientifica, sia negli Stati Uniti che all’estero, sta comprendendo sempre di più che ridurre l’indipendenza della ricerca negli USA può avere conseguenze ben oltre i confini nazionali. Limitarsi ad aspettare le prossime elezioni non sembra più una scelta accettabile. Come dicevo, gli atenei americani si trovano di fronte a una scelta cruciale: lottare per difendere la propria autonomia o cercare, attraverso negoziazioni, di evitare pesanti tagli ai finanziamenti.

Eventi spontanei come le proteste “Stand up for Science” del 7 marzo scorso hanno visto radunarsi numerosi ricercatori, non solo negli USA ma anche all’estero, per opporsi a questi attacchi. Il coinvolgimento di grandi società, e della comunità academica e scientifica, Tuttavia, il coinvolgimento delle grandi società e delle accademie scientifiche in questa battaglia, finora non quanto ci si potesse aspettare, deve ovviamente crescere e diventare costante e impetuoso:  il compito che spetta loro, e a tutti quelli che hanno a cuore il progresso, la democrazia, il progresso, l’avanzamento delle conoscenze, sarà quello di opporsi a ogni interferenza politica nei processi di studio e ricerca, e di continuare a documentare e denunciare ogni attacco alla scienza messo in atto da Trump e dalla sua amministrazione.

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