di Antonio Salvati
Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un luogo di morte e disperazione. Oltre settanta persone si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno. Con essi hanno scelto di farla finita anche sette agenti della polizia penitenziaria. Ognuno avrà avuto le sue ragioni per fare scelte così irreversibili. Le carceri italiane ospitano circa 62.000 detenuti, quattordicimila in più rispetto alla capienza disponibile. I dati ci segnalano che gran parte di essi sono responsabili di reati minori con condanne a pene che potrebbero dar luogo a percorso alternativi se solo avessero un domicilio, una famiglia che possa prendersi cura di loro o un lavoro con cui condurre una vita dignitosa. Per questo scenario ed altro ancora l’11 giugno 2025 si è svolto il Convegno Diritto e clemenza: che fare per il carcere? presso il chiostro di Santa Maria della Minerva, tra le sedi del Senato, a Roma. L’incontro è stato promosso dall’onorevole Paolo Ciani e dai professori Luigi Manconi e Stefano Anastasìa.
Luciano Eusebi, giurista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha riferito che il Presidente dell’Associazione dei professori di diritto penale, il Presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati e il Presidente dell’Unione delle Camere penali, ossia i professori, i magistrati e gli avvocati hanno chiesto un provvedimento sul carcere, di amnistia o indulto purché riduca la popolazione carceraria. Eusebi sviluppa il suo ragionamento da un presupposto: questo carcere – eretto a simbolo del contrasto dei reati – non fa affatto prevenzione. All’opposto. La prevenzione – aggiunge – non dipende dalla neutralizzazione. Non ha mai fatto diminuire i reati. Negli Stati Uniti la popolazione carceraria è cresciuta di cinque volte a forza di applicazione della neutralizzazione. Un detenuto recuperato contrasta l’attrattività dell’attività criminale e soprattutto mostra che i legami con le attività criminose non sono indissolubili e mina la solidità delle attività criminali. Non a caso le mafie temono la defezione, le persone recuperate. La prevenzione non dipende dall’intimidazione. Pensate – si chiede – che l’entità della pena c’entri qualche cosa sull’intenzione di uccidere? Non è l’intimidazione esterna a desistere dall’uccidere. Dipende piuttosto dalla motivazione. Se dipendesse dall’intimidazione dovremmo mettere – disse Paolo Borsellino poco prima di morire – un carabiniere su ogni persona. Andare a capire cosa c’è dietro un delitto, cos’è successo non significa giustificare; «vuol dire creare le premesse per poter costruire prevenzione». L’art. 27 è norma in realtà strategica, non è soltanto umanitaria, è fondata sulla rieducazione. Non vorremmo che fosse in discussione il principio della rieducazione. Frequentemente vengono pronunciate locuzioni tristi: gettare via le chiavi, marcire in carcere. Il diritto penale della ritorsione non è neanche a favore delle vittime. Infatti, spesso le vittime subiscono le dinamiche che ti portano a chiedere il massimo danno per gli autori di reato, volendo solamente il male di chi aveva commesso il male. Per poi rendersi conto di voler essere diversi. Giovanni Paolo II – ricorda Eusebi – in occasione del Giubileo del 2000 diceva ai detenuti: le stesse persone a cui avete cagionato dolore sentiranno forse di aver avuto più giustizia guardando al vostro cambiamento che al semplice scotto penale pagato. Avremmo bisogno di introdurre la pena prescrittiva. Essa non risponde al negativo con il negativo, ma con un programma, un impegno personale importante per il detenuto e la società. Potremmo avere solo 20000 detenuti. In carcere abbiamo persone che non dovrebbero essere lì. Introdurre dunque «un’unica nuova pena principale, la pena prescrittiva, che ricomprende tra i suoi possibili contenuti, tassativamente previsti, anche lavoro di pubblica utilità, provvedimenti detentivo-domiciliari, interdittivi e altri, non di rado proposti come nuove pene principali autonome». La giustizia non è la ripetizione del male «ma cercare di rendere giusti rapporti che non lo sono stati. Non c’è nessuna pena che cancella alcun reato; quel reato «lo dobbiamo guardare in faccia e su quella frattura è possibile ricostruire, gettare un ponte». E questo crea non solo la prevenzione ma anche le condizioni della pace. Non dobbiamo dimenticare che nella storia le giustificazioni della giustizia retributiva sono state le stesse della guerra. Una società incattivita non produce prevenzione.
Donatella Di Cesare partendo da un punto di vista filosofico politico si è chiesta cosa rappresenta oggi il carcere. «La discarica dei nostri problemi sociali? Il mezzo di contenimento di corpi selvaggi, il luogo di stoccaggio dei superflui, di internamento dell’umanità in eccesso? Un utile strumento di governo?». Il sovraffollamento è l’epifenomeno di un cambiamento profondo che si è andato producendo negli ultimi anni. Sappiamo (secondo la World PrisonPopulation List) che i detenuti nel mondo superano gli 11.500.000 nel 2024. Si tratta di un continente costantemente in crescita, come quello dei migranti. L’Italia fa in Europa la sua parte con un rate molto alto. I dati segnalano una svolta, che si è andata compiendo in gran parte dall’inizio della pandemia nel 2020 e dall’ascesa della nuova destra. Per la Di Cesare siamo in presenza di una democrazia immunitaria, «intendendo con questo la deriva di una comunità democratica sempre più basata sulla barriera tra protetti ed esposti, tra chi è dentro e chi è fuori. Il cittadino all’interno non chiede partecipazione, bensì solo protezione, difesa della propria sfera. La barriera è profonda, il divario si amplia: da un canto i protetti, i preservati, gli immuni, dall’altro gli esposti, i reietti, gli abbandonati. Non è più solo l’apertheid dei poveri. Il discrimine è proprio l’immunità che scava un solco. Immune, da munus, tributo, onere, dono, vuol dire essere esente dall’obbligazione mutua, essere dispensati dal vincolo reciproco. Cioè la fine della comunità, dell’impegno reciproco verso la propria reciproca vulnerabilità». Per chi mira a proteggersi, a conseguire immunità, «gli altri sono i perdenti che meritano di andare perduti, i selvaggi che possono andare incontro a devastazioni selvagge (in nome della civiltà). Sarà meglio tenersi a debita distanza da quei reietti che meritano di essere respinti, rifiutati, parcheggiati nei vuoti urbani, accumulati come rifiuti nelle carceri, internati nei campi dei migranti. Nessuna pietà per questi superflui non degni di riscatto». Si diffonde una politica fobocratica, ossia che governa esercitando la paura, incutendo timore. «È un potere che minaccia per rassicurare, che sottolinea il pericolo per promettere tutele – una promessa che non mantiene». È un circolo perverso che segna il successo della nuova destra e delle forze populiste. Si accendono e si spengono focolai di apprensione collettiva senza alcuna strategia e senza chiari scopi se non la chiusura immunitaria di una comunità passiva e disgregata. La vita appare stretta in una morsa tra minaccia di subire un’aggressione ed esigenza di difendersi, anzi di prevenire l’attacco. Evidentemente, n tale contesto il carcere, lungi dall’essere luogo di riscatto (ma quando lo è mai stato?), macchina di produzione di crimini e criminali, «sembra rivelarsi addirittura efficace strumento di governo. Il crimine è l’occasione, il pretesto per esercitare la politica fobocratica. Di qui il tentativo diffuso di criminalizzazione. Perciò si moltiplicano i reati – proprio con il pretesto di criminalizzare. (Adesso siamo arrivati a considerare reato la resistenza passiva) ». Ma – avverte Di Cesare – questo “microcrosmo alla deriva”, come l’ha chiamato Paolo Ciani nel suo intervento alla Camera dei Deputati del 21 marzo 2025, ci riguarda. Ci riguarda il disagio che vi alberga, la violenza che viene perpetrata quotidianamente, ci riguardano i suicidi. C’è una «necropolitica del carcere: è il messaggio subdolo per cui la vita di quelli dietro le sbarre, fuori dalla città, non vale e può essere sacrificata. Nessun pianto, nessun lutto. (Noi infatti non le piangiamo, non versiamo una lacrima, non avvertiamo più neppure un tremito fugace di afflizione. Qualcuno prova perfino una certa soddisfazione per quella minaccia venuta meno, che avrebbe contaminato e guastato il nostro ordine. D’altronde “se la sono voluta”)». Come se dell’oliato ingranaggio del carcere facesse parte lo stritolamento occasionale di una vita – come se fosse ovvio. Vite date in pasto al grande fuori da cui non c’è ritorno. Inutile nasconderselo. Siamo giunti a un punto di svolta paradossale: «da un canto è evidente che il carcere non rieduca, che è ben lontano da quella funzione punitivo-riabilitativa a cui era destinato; dall’altro è altrettanto chiaro l’uso immunitario che del carcere fa la politica fobocratica, una politica che ha bisogno del carcere, così come del grande fuori dell’esclusione, per poter governare. In questa svolta bisogna inserirsi per impedire che si spezzi del tutto il legame tra quel microcosmo alla deriva e la città, per impedire questo cambio di paradigma nel segno del peggio». Le riforme del buon punire non hanno fatto che consolidare l’economia del castigo che oggi viene inserita nel nuovo dispositivo di governo e proficuamente utilizzata. Il castigo ormai non solo reitera l’infrazione, ma consente la separazione tra la città e il suo fuori. Allora riparare vuol dire ricomporre l’infranto. «Vuol dire tornare, far ritorno. Riparare vuol dire far sì che i frammenti possano essere ricomposti – non più come prima, ma in un altro modo – che possano far ritorno e ritrovare posto nello spazio comune. Riparare non è restituire, ma aprire un nuovo varco, che è varco di futuro e di speranza. La ricomposizione dell’infranto appare oggi il compito più urgente ovunque». Ma questo vale soprattutto dal carcere. E da lì occorre ripartire. Solo così è possibile anche una comunità che non sia quella della paura e della punizione.
Altro punto di vista, quello del cardinale Matteo Zuppi. «La clemenza – ha spiegato Zuppi – non è una parolaccia, qualche volta viene identificata col buonismo, ma è un’altra cosa. La clemenza è il modo con cui si permette la sicurezza, è funzionale ad essa. Ma se io credo che la sicurezza sia il contrario di clemenza»con l’idea che sia «durezza, l’essere implacabili, è un concetto sbagliato e pericoloso». La Chiesa, ha aggiunto, su questo «è chiarissima e voglio riproporre ciò che ha chiesto Papa Francesco per il Giubileo: “Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia, di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società, la clemenza. Percorsi di reinserimento nella comunità, a cui corrisponde un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”». Il reinserimento – aggiunge Zuppi – nella comunità ci coinvolge tutti e richiede, oltre ai luoghi, investimenti e per quanto riguarda la Chiesa, facciamo ancora troppo poco. Nel carcere di Bologna un terzo dei detenuti potrebbe uscire il giorno stesso se avesse un domicilio.
Andrea Pugiotto, dell’Università di Ferrara, si è soffermato sulle leggi di amnistia e indulto che svolgono una funzione di revisione sanzionatoria in chiave deflattiva, giudiziaria e carceraria. Se tali leggi di clemenza hanno piena cittadinanza costituzionale perché, allora, sono del tutto neglette? Dopo l’ampia amnistia di pacificazione concessa nel 1946, l’ordinamento ha conosciuto – dal 1948 al 1990 – un totale di 23 provvedimenti di clemenza collettiva, moltiplicandoli «con un ritmo assai superiore a quello dell’antecedente regime» (sent. n. 175/1971). Nell’era del populismo penale, essere contrari a un atto di clemenza è molto popolare, assicura facile consenso e garantisce dividendi elettorali. Su questo humus – ha ricordato Pugiotto – ha attecchito la riforma che, nel 1992, ha dato all’art. 79 Cost. la sua attuale formulazione. Approvata nel clima malmostoso di Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare, quella revisione ha precluso ogni realistica praticabilità agli strumenti di clemenza collettiva. Infatti per approvare una legge di amnistia e indulto occorre la «maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale». «Le sue soglie dolomitiche – osserva Pugiotto – superano quelle necessarie a una legge costituzionale: paradossalmente, è più agevole modificare l’art. 79 che approvare un provvedimento di amnistia e indulto. Sono quorum che regalano paralizzanti veti incrociati: basta che un terzo dei deputati o dei senatori si sfili o minacci di farlo, e il ricatto avrà successo». Se si esclude l’indulto approvato nel 2006, da 35 anni l’Italia non conosce alcun provvedimento di clemenza.In questa abrogazione de facto è facile rintracciare uno dei segni di quel moralismo giustizialista che marca l’orizzonte del nostro tempo. Non c’è spazio per amnistia e indulto, quando ìmpera l’idea della pena esclusivamente retributiva, revival della legge del taglione. «Non esiste margine per atti di clemenza, quando la certezza della pena è declinata nel senso (distorto) che la collettività deve essere certa che la pena sarà irrogata ed espiata in tutto il suo rigore, fino all’ultimo giorno». In realtà, l’intransigenza contro leggi di clemenza è frutto di una doppia morale.Nelle ultime legislature, infatti, sono state approvate misure etichettate come rottamazione delle cartelle esattoriali, voluntary disclosure, pace fiscale, saldo e stralcio. Altro non sono che condoni fiscali, cioè sospensione per il passato della legge penale, dunque strumenti di impunità retroattiva. Tecnicamente,spiega Pugiotto, «ogni condono (fiscale, ambientale, urbanistico) equivale a un provvedimento di clemenza atipica, introdotto però con legge ordinaria, approvata a maggioranza semplice, su proposta del governo o dei partiti che lo sostengono, senza temere il dissenso della pubblica opinione. È, in altri termini, una “oscena amnistia” voluta da chi, a parole, si dichiara “senza se e senza ma” contrario a qualunque atto di clemenza». Il ricorso alla clemenza collettiva può rappresentare una soluzione normativa ragionevole, per aiutare l’ordinamento a superare una crisi coinvolgente la sua stessa legalità. Oggi, i detenuti non sono un pericolo, semmai sono in pericolo. L’ultimo report analitico del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti titolato al Rispetto della dignità della persona privata della libertà personale – aggiornato al 30 maggio scorso – denuncia 62.723 ristretti a fronte di una capienza regolamentare di 51.297 posti, di cui solo 46.706 effettivamente disponibili. Ne risulta un indice di sovraffollamento pari al 134,29%: in media, per ogni 100 posti ci sono 134-135 detenuti. La curva è in salita (nel 2020 erano 10.499 in meno) e sarà spinta in su dall’inventiva dell’attuale XIX Legislatura, spregiudicata nel moltiplicare i reati, inasprire le pene, creare nuove aggravanti e inedite ostatività penitenziarie.
Basterebbe – avverte Stefano Anastasia – un provvedimento di indulto per le pene o i residui di pena fino a due anni per cancellare il sovraffollamento e rimettere in funzione il sistema penitenziario italiano. 16.568 persone, il 31 maggio scorso, scontavano pene o residui pena inferiori a due anni: tanti quanti sono ospitati in eccesso nelle nostre carceri. Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile ed immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, «lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il Presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore dell’ultimo provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi dell’articolo 27 della Costituzione». Quel provvedimento diede risultati assai positivi, non solo decongestionando gli istituti di pena e consentendovi – seppure solo per un certo periodo – condizioni accettabili di vita e di lavoro, ma anche nella riduzione della recidiva. E’ quindi fondatamente prevedibile che un provvedimento di clemenza – pur limitato a due anni di indulto e corredato da un’amnistia per reati che non siano punibili, nel massimo, a pene superiori a quelle che è già possibile scontare in alternativa al carcere – possa porre termine alla gravissima situazione di sovraffollamento esistente e alle intollerabili condizioni di vita e di lavoro in carcere. Azzerato il sovraffollamento, «maggioranza e opposizioni potranno tornare a dividersi sul futuro, ma almeno avranno guadagnato il tempo per realizzarlo, ponendo fine alla dissipazione di vite e diritti che si sta consumando nelle nostre carceri».