Riceviamo e pubblichiamo il contributo di Bruno Santoro
La periferia come resistenza. Dalla solidarietà con la Palestina alla difesa della scuola: un racconto di partecipazione e consapevolezza oltre le logiche del controllo.
Il 24 ottobre, a Scampia, si è tenuta una manifestazione in sostegno del popolo palestinese, ancora vittima dell’occupazione e dell’apartheid israeliano.
Un appuntamento sentito, partecipato, costruito dal basso, che ha unito la solidarietà internazionale al bisogno di riscatto di una periferia che si mobilita per andare oltre il ruolo che le si vuole imporre e per costruire un’altra narrazione di sé.
Organizzato dalla Rete di Scampia per la Palestina in collaborazione con la Rete Progetto Pangea, l’evento ha visto la partecipazione del Gridas, del Centro Culturale Handala Alì, del Coordinamento Docenti Area Nord di Napoli, di Fratel Raffaele dei Fratelli Lasalliani di Scampia, dei Carc e di numerosi cittadini intervenuti all’assemblea.
La giornata è iniziata con la visita al Giardino dei Cinque Continenti e della Nonviolenza, curato dalla rete del Progetto Pangea, un luogo simbolico un tempo abbandonato e oggi rinato grazie all’impegno collettivo.
Uno spazio verde ma anche politico, restituito alla città grazie all’ impegno di persone straordinarie come Mirella La Magna, Aldo Bifulco e Fedele Salvatore, perché sia emblema di resistenza e rinascita di una periferia ancora troppo slegata dal contesto urbano complessivo.(Visitatelo, mi ringrazierete)
Poi l’iniziativa è proseguita presso l’ARCI Scampia, attiva dal 1986 e punto di riferimento per ragazzi e famiglie grazie all’impegno di Antonio “Mister” Piccolo e Carlo “Mister” Sagliocco, qui è stato piantato un ulivo, segno tangibile del legame indissolubile tra la periferia napoletana e i territori occupati della Palestina.
Due realtà lontane ma accomunate da condizioni di marginalità strutturale, pur nelle dovute differenze, determinate da un potere oppressivo che in Palestina tende a soggiogare e annientare, e nelle nostre periferie a escludere e marginalizzare.
Potere a Scampia che esclude eccome. Lo dimostra la gestione autoritaria e classista del Comune di Napoli, che l’estate scorsa ha lasciato per tre lunghi mesichiuse le stazioni della metropolitana di Piscinola, Chiaiano e Frullone, senza consultare la cittadinanza e senza alcun preavviso, isolando decine di migliaia di persone e trattando gli abitanti dell’area nord come cittadini di serie B.
E questa “gestione” non è solo una questione di trasporti o di servizi, ma riguarda anche, e forse soprattutto, il modo di considerarla.
A volte si avverte, e non è solo una sensazione, che la periferia venga ritenuta come un’escrescenza della città, qualcosa da tollerare, vissuta sempre come un problema da gestire e quasi mai come una realtà da includere in una progettualità integrata, un luogo su cui investire risorse, tempo ed energie.
Eppure, quando serve, diventa serbatoio da cui attingere, come accade in certe iniziative che finiscono per confermare, più che mettere in discussione, la distanza tra centro e periferia.
Ci ho pensato quando l’altro giorno mi sono imbattuto in un post pubblicato sulla pagina facebook di un istituto superiore di Scampia.
Raccontava di un incontro con studenti e famiglie sul tema dell’educazione digitale e del cyberbullismo, tenuto non da sociologi, psicologi o docenti esperti di comunicazione, ma esclusivamente dalle forze dell’ordine, precisamente dalla polizia postale.
È ormai, purtroppo, una pratica diffusa affidare alle forze dell’ordine temi complessi come l’educazione digitale, e, più in generale, molte questioni sociali delicate, come la violenza di genere, riducendoli a problemi di sicurezza, anziché occasioni di formazione e consapevolezza.Si trasmette così l’idea che la rete e i suoi rischi debbano essere affrontati soltanto con strumenti di controllo e di repressione, invece che come occasione di formazione e consapevolezza, trasformando in questo modo la tecnologia in un luogo di diffidenza più che di espressione e partecipazione critica. Così facendo si alimenta un sentimento di paura generalizzato, al di là della rete e della tecnologia, e la paura, da sempre, è una delle armi più efficaci del controllo.
Temo che l’obiettivo implicito sia, in realtà, proprio questo e che l’operazione, nel caso specificato, abbia un significato non solo pratico ma anche simbolico, vale a dire consolidare l’idea che tutto debba essere sorvegliato, che l’obbedienza sia un valore in sé, che non possa esserci libertà senza controllo.
È un modo per ricordare, soprattutto ai giovani delle periferie, quale sia il loro posto, la loro funzione nella società, non cittadini da emancipare ma soggetti da disciplinare, terreno di coltura per il reclutamento nelle forze armate e di polizia.
Mi tornano alla mente le parole di don Milani nella “Lettera ai cappellani militari”: “L’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.”
La manifestazione pubblica, di cui stiamo riportando gli esiti, dimostra che uscire dalle logiche di subordinazione indotte è possibile.
La giornata, infatti, si è conclusa con una partecipata assemblea pubblica, in cui si è ribadita la necessità di mantenere alta l’attenzione sull’occupazione in Palestina e di proseguire la mobilitazione.
E tale necessità è stata confermata dal fatto che, a poche ore dalla conclusione della manifestazione di Scampia, si è verificata la repressione subita da alcune decine di attivisti alla Mostra d’Oltremare, dove tre persone sono state arrestate al termine di una contestazione pacifica contro la multinazionale farmaceutica israeliana TEVA, durante il PharmExpo. Un gruppo di Sanitari per Gaza aveva semplicemente letto una lettera di denuncia davanti allo stand dell’azienda, chiedendo anche al Comune di Napoli di rispettare la mozione votata il 2 luglio scorso che prevedeva la sospensione dei rapporti con imprese legate all’occupazione israeliana.
La protesta, del tutto pacifica, si è invece conclusa con un intervento violento delle forze dell’ordine, che ha portato a identificazioni e arresti, un segnale preoccupante di come il dissenso non venga assolutamente tollerato. E questa repressione viene da lontano e ci riferiamo ai decreti sicurezza e alla retorica securitaria che questo governo ha attuato e sta portando avanti da quando si è insediato.
Tutto ciò ci richiama alla necessità di ricostruire un impegno e una partecipazione collettiva capaci di riconoscere le connessioni tra gli eventi e di leggere dentro di essi i segni di un sistema sempre più repressivo, fondato su un’economia di guerra. Una guerra che, nel nostro immaginario, vogliono far apparire come qualcosa di naturale e inevitabile, contro cui non è possibile opporsi.
Eppure, le piazze in Italia e nel mondo dimostrano che le persone non accettano questa logica.
Stanno manifestando una consapevolezza che nasce dall’esperienza quotidiana delle difficoltà, della precarietà, dei bisogni di cura e delle solitudini generate dallo smantellamento dello stato sociale e da un modello economico che, in nome del profitto, continua a produrre disuguaglianza e ingiustizia.
Alla normalizzazione dell’occupazione e della negazione dei diritti a Gaza e in Cisgiordania, come della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti (in barba all’ art. 11 della nostra bellissima Costituzione), della precarietà, della disoccupazione a cui ci hanno abituato e della repressione del dissenso a cui stiamo assistendo, dobbiamo opporre un argine fatto di partecipazione e di responsabilità collettiva.
Non solo nelle piazze, ma anche nei luoghi di lavoro e di formazione. E lo dico da insegnante, perché difendere la scuola significa contrastare l’attacco neoliberista che la vuole ridotta a strumento di produzione, funzionale a quel mercato del lavoro fondato sulla precarietà e sulla rinuncia ai diritti.
E forse è da qui, dalla periferia, dai margini, che può tornare a nascere un linguaggio comune capace di restituire senso alle parole giustizia, libertà e pace.
Foto di Bruno Santoro
