Riceviamo e pubblichiamo il contributo di Michele Eugenio Di Carlo

Riassunto

Il lucano Giustino Fortunato, singolare figura di monarchico e conservatore, è stato uno dei più noti meridionalisti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Mai rinnegando i suoi valori politici unitari, ha dedicato la vita intera al miglioramento delle condizioni sociali ed economiche delle popolazioni rurali del Mezzogiorno. Sin dalle sue prime lettere giovanili,si è dedicato da intellettuale puro alla questione meridionale. Contrastando un’aristocraziadecaduta e una borghesia avida, si è speso a difesa delle banche mutue popolari e contro la trasformazione dei Monti Frumentari in Casse di Risparmio, unici enti che potevanosalvare dalla fame contadini e braccianti poveri. Noti i suoi interventi sulla questione demaniale che riteneva “la perpetua domanda di terre da dividere al popolo, e non mai divise perché mal possedute da’ prepotenti”. L’impegno politico di Fortunato in Parlamento si è esteso fino alla richiesta di una riforma tributaria che non pesasse quasi esclusivamente sulle fasce poco agiate della popolazione.

Parole chiave: questione meridionale, banche popolari, monti frumentari, questione demaniale, riforma tributaria.

1. Giustino Fortunato, conservatore unitario, monarchico

Giustino Fortunato nasceva a Rionero in Vulture nel 1848 da una famiglia benestante, diversi membri dei quali – gli zii e il padre – venivano arrestatinel 1861 con l’accusa di aver fiancheggiato gli insorgenti di Carmine Crocco.

Laureatosiin Legge a Napoli nel 1869, aderiva nel 1879 alla sezione napoletana del Club Alpino Italiano, esperienza che gli consentiva di approfondire gli studi di geografia, botanica, climatologia dell’Italia meridionale continentale e di riflettere sulle condizioni di arretratezza del Mezzogiorno che, a suo parere, andavano cercate soprattutto nei fattori climatici e ambientali, meno nelle vicende storiche. Dopo gli studi, seguendo i corsi di letteratura di Francesco De Sanctis, il giovane Fortunato plasmava la sua azione ai valori politici del Risorgimento, mai rinnegandoli nella pur lunga e intensa stagione intellettuale e politica.

Fortunato, dopo la pubblicazione nel 1875 delle note Lettere meridionalidi Pasquale Villari (Villari P., 1875) si inserisce a pieno titolo nell’ambito culturale liberale della rivista «Rassegna settimanale», fondata dai giovani intellettuali toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino.

Il riformismo in campo sociale di Villari, teso ad allievare le tristi condizioni socio-economiche delle popolazioni del Mezzogiorno,aprendo la strada a studi e inchieste di studiosi, economisti e sociologi, viene condiviso da Fortunato. I primi a dar seguito al pensiero politico di Villari sono i due giovani conservatori toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, i quali nel pubblicano il saggio La Sicilia nel 1876  (Franchetti & Sonnino, 1877) in due volumi, inquadrando,forse meglio del loro professore, fenomeni socio-politici quali le resistenze regionalistiche, l’anarchia delle classi dirigenti, le cruente ribellioni contadine, la larga influenza ideologica del clero, in un contesto sociale dominato arcaicamente dall’assoluto predominio di una borghesia agraria parassitaria e usuraia.

Un’ambiente civilmente degradato che i primi governi unitari avevano favorito, “ora piegandosi al compromesso ora svolgendo una politica puramente repressiva” (Villari R., 1966: 119), tanto che nella sua relazioneFranchetti aveva ammesso le politiche governative fallimentari:

“In un paese dove niuno crede che le leggi siano superiori a tutti e per tutti uguali, e dove è convinzione generale che la loro applicazione dipenda dalla autorità dei potentati locali, ogni concessione che venga fatta ribadisce l’universale credenza” (Franchetti, 1877).

Mentre Sonnino, nella sua relazione (Sonnino, 1877) ammetteva che non erano stati spezzati i vincoli feudali restando immutate le disperate condizioni delle masse rurali del Mezzogiorno, «appunto perché i feudi […] furono lasciati in libera proprietà agli antichi baroni” (Villari R., 1966: 136).

2. Le lettere giovanili di Giustino Fortunato

La raccolta di lettere dell’illustre meridionalista vulturese di Rionero Giustino Fortunato, rappresenta senz’altro una preziosa documentazione culturale sulla seconda metà dell’Ottocento e sul Primo Novecento.

Il Carteggio Fortunato, i cui primi volumi sono stati pubblicati a Bari dall’editore Laterza nel 1978[1](Fortunato, 1978), a cura di Emilio Gentile, per volontà dell’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI), racchiude un periodo storico che va dal 1865, quando il giovane lucano ad appena diciassette anni chiede a Cesare Cantù consigli su come affrontare lo studio della storia, alla sua scomparsa avvenuta nel 1932.

Le lettere di Fortunato offrono un’occasione straordinaria allo studioso e all’appassionato della questione meridionale per rivisitare la storia del Regno d’Italia dalla sua costituzione fino al primo decennio fascista e riflettono la personalità, oltre che dell’affermato storico e del puro intellettuale, dell’uomo fragile e sensibile dai sentimenti genuini e dagli affetti sinceri, che dedica il suo pensiero forte e la sua attività tenace al Mezzogiorno, immedesimandosi nelle tribolazioni del popolo contadino meridionale e soffrendo per le condizioni sociali ed economiche di un sud Italia ancora arretrato, nonostante l’annessione al Regno d’Italia. L’intellettuale lucano, pur conservando nitido il sentimento patriottico unitario, nei suoi rapporti epistolari con i grandi politici e intellettuali dell’epoca matura una comprensibile sfiducia nei riguardi della classe dirigente del Mezzogiorno e, pur apprezzando i governi liberali della Destra storica del primo decennio unitario, da parlamentare non diventerà mai organico né alla Destra né alla Sinistra, tanto da non accettare mai incarichi governativi.

Dopo la lettera a Cantù, Fortunato, nel 1870, scrive tre lettere a Luigi Corapi, amico conosciuto nel 1862 frequentando il Collegio degli Scolopi a San Carlo alle Mortelle. Nella prima del 26 agosto[2] (Ibidem: 3-5) risponde all’amico, che ritiene Massimo D’Azeglio un pessimo politico, giustificandone l’operato e apprezzandone le lettere alla moglie appena pubblicate (D’Azeglio, 1870). Nella seconda, datata 15 settembre(Fortunato, 1978: 5-6), il giovane lucano esprime la propria stima nei riguardi di Napoleone III, ritenuto «il primo fattore dell’unità italiana». Nella terza del 30 settembreprende definitivamente atto che le opinioni politiche dell’amico divergono dalle sue:

“le nostre opinioni, cioè, in fatto di politica, vanno per poli opposti. Non è forse vero? Io, in brevi termini, sono moderato, o, se vuoi, anche, consorte; monarchico nelle ossa; nemico giurato de’ Crispi, de’ Rattazzi, de’ Sonzogno e compagnia bella: ecco tutto”(Ibidem: 6-8).

Inoltre, Fortunato comunica in maniera chiara la sua vicinanza ai primi governi sabaudi della Destra, addossando alla Sinistra storica e all’opposizione antimonarchica «le rovine presenti»; dichiara persino che avrebbe fatto parte della Sinistra “se questa non avesse a capi il Crispi e il Rattazzi e se non avesse ad organi il Roma e la Riforma”. Il giovane intellettuale avrà modo di confermare il suo pessimo giudizio della Sinistra, ma presto rivedrà il proprio parere sulla Destra, tanto che nel 1911, dedicando all’amico Federico Severini la raccolta dei suoi discorsi politici e elettorali, scriverà: “I nostri partiti, tanto i vecchi quanto i nuovi (e già i nuovi non meno asmatici de’ vecchi) sono ciechi, e la loro corsa verso l’ignoto pare irrefrenabile” (Cfr. Fortunato, 1911: 12).

Da Napoli, il 4 novembre 1875, un commosso e sorpreso Fortunato dava riscontro a una lettera ricevuta il 25 ottobre dal noto accademico Pasquale Villari. Dal Carteggio Fortunato si deduce che il giovane ventisettenne aveva trasmesso allo storico napoletano la relazione sulle società cooperative di credito letta il 5 maggio dello stesso anno all’incontro dell’Associazione Unitaria Meridionale. Fortunato ringraziava Villari per aver apprezzato il suo scritto, manifestando il suo compiacimento per averlo conosciuto personalmente, seppure solo per corrispondenza(Cfr. Fortunato, 1978: 8-11).

Pasquale Villari, nato a Napoli nel 1826, docente di Storia a Firenze dal 1865, deputato negli anni Settanta, aveva appena scritto per il giornale l’«Opinione» di Torino le Lettere meridionali (Villari P., 1875). Mettendo in risalto le tristi condizioni socio-economiche delle popolazioni del Mezzogiorno, aveva dato vita al dibattito sulla questione meridionale e alla critica delle politiche governative del primo quindicennio del Regno d’Italia. Politiche che non avevano inteso affrontare le problematiche delle masse contadine del Mezzogiorno, sempre contrastate e combattute con l’uso della forza al fine di mantenere in essere i rapporti semifeudali che privilegiavano il dominio locale della borghesia agraria sulla plebe rurale, sfruttata e mantenuta in uno stato di semi-schiavismo.

In relazione ai dubbi di Villari sulle banche popolari del Mezzogiorno, Fortunato rispondeva: “Nelle province meridionali manca del tutto una classe superiore […]; manca cioè un’aristocrazia, una nobiltà qualunque. Essa è tutta racchiusa in Napoli, ed è la più stupida aristocrazia di questo mondo” (Cfr. Fortunato, 1978: 9). Proseguiva passando all’analisi della borghesia dominante, tracciandone il profilo:

“… e così come la borghesia è fotografata dal conte Alfieri e dal Franchetti, sarebbe vano sperare che si mettesse a patrocinare la causa de’ poveri contadini, su’ quali pesa con tutto il rigore del più crudo e disumano potere, con tutta la sfacciataggine della più vile e sudicia usura” (Ibidem).

In definitiva, in questa lettera il giovane Fortunato, laureatosi da poco in Giurisprudenza, accennava ai temi che avrebbero caratterizzato il suo futuro impegno di politico e di pensatore illuminato: la critica alla classe dirigente meridionale e alle politiche dei governi di Destra e di Sinistra, la tutela dei diritti negati ai contadini, non rappresentati in Parlamento perché non aventi diritto al voto. E discutendo di democrazia il rionerese chiariva che essa era riservata agli uomini, non ai contadini considerati “iloti”. Per l’intellettuale vulturese l’annessione del 1860 era una “rivoluzione politica della borghesia”, mentre il brigantaggio una conseguente “reazione sociale della plebe” (Cfr. Ibidem: 9-10).

Il giudizio sulla Sinistra, che tanto aveva contribuito all’Unità d’Italia, non era affatto lusinghiero:“La sinistra meridionale non è radicale, non è progressista: è democratica a vantaggio dell’unica classe che rappresenta, l’alta e la bassa borghesia”. E, da questa prospettiva, chi avrebbe mai potuto sperare che “i ministri napoletani” potessero “mai votare una legge agraria o il suffragio universale”? (Ibidem: 10)

Fortunato concludeva la lettera dichiarando di sentirsi onorato della risposta di Villari e esprimeva la speranza di incontrarlo di persona per discutere le Lettere meridionali. Infine, si metteva a totale disposizione del politico napoletano per tutto quanto inerente “ad una vera propaganda a pro’ delle classi povere del Napoletano” (Ibidem). Iniziava un rapporto che sarebbe durato tutta la vita.

3. La strenua difesa delle banche mutue popolari di Fortunato

Nella lettera del 4 novembre 1875 a Pasquale Villari, Giustino Fortunato, in merito ai dubbi espressi dal professore napoletano sulle banche popolari del Mezzogiorno, scriveva: “ ‘Il patronato de’ deboli assunto da’ forti’ (ciò che forma il mio sogno, il mio ideale), resterà per un bel pezzo ancora – nella nostra regione – una parola vuota di senso” (Ibidem: 9). Per il lucano di Rionero le ragioni andavano ricercate nella classe dirigente scadente, costituita in parte da un’aristocrazia decaduta e in parte da una borghesia agraria dominante avida e usuraia, odiata dal popolo delle campagne (Cfr. Ibidem). Peraltro, secondo Fortunato, gli stessi legislatori non avevano affatto in mente “il concetto del patrimonio de’ deboli e dell’assistenza de’ poveri” (Ibidem: 12).

Nell’anno stesso in cui veniva eletto in Parlamento, il 1880, Fortunato pronunciava a Bologna, il 18 ottobre, un discorso (Fortunato, 1911: 51-68) al Congresso delle Società Cooperative di Credito, dopo aver già nel 1877 pubblicato sul tema un testo

Nella lunga premessa, il parlamentare vulturese si soffermava sulla freddezza dei rapporti tra settentrionali e meridionali, sempre più distanti e indifferenti gli uni agli altri dopo i bei giorni del “patrio riscatto”, tanto da affermare senza tema di essere smentito che esistevano “due Italie”. Nel ripercorrere gli eventi storici che già avevano per secoli diviso l’Italia, Fortunato avvertiva profeticamente l’uditorio: “l’avvenire d’Italia è tutto nel Mezzogiorno […] il Mezzogiorno, sappiatelo pure, sarà la fortuna o la sciagura d’Italia” (Ibidem).

Per meglio farsi intendere sulle drammatiche condizioni socio-economiche del sud Italia, illustrate dai toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Fortunato citava l’ex capitale Napoli:

“Ma avete mai notato anche in Napoli, anche nella prima città del Regno, quel fenomeno terribile e quasi unico in Europa, di una grande città di mezzo milione di abitanti, che per due terzi della sua popolazione ha una plebe senza lavoro quotidianamente sicuro?”(Ibidem).

Il rionerese dichiarava che per dimostrare quanto fosse povero il Mezzogiorno non era necessaria la sua opera di convincimento, visto che le statistiche esistenti sulle produzioni, sui commerci, sui consumi erano chiare e esaustive.

Giunto nel vivo del dibattito congressuale, avente come tema centrale l’apprezzata volontà di estendere la rete delle banche popolari nel Mezzogiorno, accolto con slancio passionale l’annuncio che Luigi Luzzatti (economista e politico veneto, fondatore e direttore del Banco Popolare di Milano, docente di Diritto costituzionale, più volte ministro e presidente del Consiglio 1910-1911), presidente delle Società Cooperative di Credito, si sarebbe recato in visita in Basilicata, Fortunato ripeteva che «la redenzione» e «la fortuna stessa d’Italia» non potevano che “procedere dal Mezzogiorno al Settentrione”(Ibidem). Nel merito dell’estensione delle banche popolari nel Mezzogiorno non negava i fattori che avrebbero reso sicuramente ardua la loro diffusione: assenza di una classe dirigente appropriata al compito, mancanza di capitali e di risparmi, oltre al rischio di assoggettamento alle ingerenze delle consorterie politiche o, addirittura, di servire da schermo ad associazioni usuraie.

Infine, Fortunato passava a descrivere la sua esperienza di fondatore nel 1873 della Banca di Rionero. Una banca che aveva raggiunto il ragguardevole numero di 630 soci, a maggioranza contadini e artigiani nella totale indifferenza dei possidenti del paese e che, durante i frequenti periodi di carestia, acquistava grano dalle aree danubiane salvando letteralmente dalla fame contadini e braccianti poveri. Una banca, inoltre, che davanti alla nefasta trasformazione dei napoletani Monti Frumentari in Casse di Risparmio o di prestanza, ne assumeva il benefico ufficio distribuendo “sementi ai coloni bisognosi”, tutelandoli dalle mire usuraie della borghesia terriera. Nel territorio vulturese l’esempio di Rionero era stato seguito da Melfi e Barile, mentre stavano per aprire sportelli bancari anche Venosa e Lavello(Cfr. ibidem).

Fortunato, soffermandosi sulla “banca consorella di Barile, Comune albanese di soli tremila abitanti a due chilometri di Rionero”, comunicava che essa era stata fortemente voluta dal direttore, leggendone una lettera che chiarivano le motivazioni che lo avevano indotto a quella che nel Mezzogiorno era ritenuta una vera impresa: “L’usura […] fece nascere in me il pensiero di fondare un istituto di credito popolare”, pur di non “vedere supplichevoli que’ poveri contadini, che nei mesi d’inverno non potessero sodisfare i loro impegni”, il mutuo era passato da tre mesi a un anno e l’acquisto di azioni da parte di contadini e artigiani erano stato facilitato in modo tale che costituivano il 50% dei componenti del Consiglio di amministrazione(Cfr. ibidem).

Il parlamentare lucano ultimava il suo intervento non senza ricordare Ugo Bassi, Leopoldo Pilla, Alessandro Poerio e Goffredo Mameli, “morto all’ora novissima per ferite avute in difesa della patria comune”(Ibidem). E proprio in ricordo dei giorni lieti che avevano unito la patria, Fortunato concludeva con parole che sarebbero diventate profetiche alla luce dei tragici e violenti avvenimenti che avrebbero caratterizzato l’ultimo repressivo decennio dell’Ottocento:

“quelle masse rurali che non vogliamo o non sappiamo trarre a noi per via del rinnovamento economico e morale, quelle masse, ho paura, faranno saltar per aria l’edifizio! Facciamoci amare, se non vogliamo essere odiati”(Ibidem).

4. La battaglia di Fortunato contro la trasformazione dei Monti Frumentari in Casse di Risparmio

 Nella seconda lettera a Pasquale Villari (Fortunato, 1978: 11-13), datata 18 gennaio 1876, Giustino Fortunato scrive delle Opere Pie, la cui amministrazione con legge del 3 agosto 1862 era passata alle Deputazioni Provinciali sotto la vigilanza del Ministero dell’Interno. A parere di Fortunato la nomina degli amministratori da parte dei consigli comunali non assicurava “il patrocinio de’ deboli” e l’“assistenza de’ poveri”(Ibidem). Inoltre, il vulturese spiegava al politico napoletano il motivo per cuila commissioneper lo studio delle problematiche legate alle Opere Pie del Comitato napoletano per il progresso degli studi economici,aveva sostenuto la proposta di Turiello affinché le Congregazioni di Carità fossero elette a suffragio universale.

L’intellettuale lucano riprendeva la questione dei Monti Frumentari sulla rivista «Rassegna Settimanale», in un articolo del 21 marzo 1880 (La trasformazione de’ Monti Frumentari nelle province napoletane), biasimando i numerosi decreti reali che davano “facoltà ai Comuni dell’Italia meridionale di trasformare i Monti Frumentari in Casse di Risparmio o di prestanza”. Nell’articolo Fortunato percorreva la storia spesso travagliata dei Monti Frumentari, aventi la finalità di somministrare alimenti “agli agricoltori poveri, con l’obbligo della restituzione nei giorni del raccolto, previo tenuissimo aumento della derrata”; il fine era quello di non lasciare la povera gente nelle mani untuose della borghesia usuraia. Fortunato giungeva persino a elogiare il comportamento di Ferdinando IV di Borbone, che con il dispaccio del 17 ottobre 1781 aveva tentato di salvare i Monti Frumentari dalle mire subdole della nascente borghesia rurale, tutelando quelli che riteneva i “ceti più utili allo Stato”, diventati “poveri e malviventi dall’avidità insaziabile di pochi intesi soltanto al proprio interesse”. Inoltre, con il decreto del 21 dicembre 1821 i Monti Frumentari del Regno delle Due Sicilie erano stati regolatati da norme che prevedevano in serio esame i bilanci, mentre giunto il Regno d’Italia la legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865 aveva sollevato le deputazioni provinciali dall’obbligo di presentare bilanci preventivi e di rendere il consuntivo (Cfr. Fortunato, 1911:38-49).

Fortunato, diventato deputato nelle elezioni del 16 maggio 1880, nel suo primo intervento alla Camera dei Deputati (Ibidem:29-37), il 15 giugno 1880, nell’ambito della discussione sul bilancio di previsione in merito al capitolo sulle spese per le Opere Pie e sui servizi di pubblica beneficenza, richiamava il Ministro degli Interni Agostino Depretis sul progetto di riforma inteso a portare a termine la trasformazione dei Monti Frumentari in Casse di Risparmio o di prestanza. Una trasformazione che, a parere del vulturese, altri non era che una “liquidazione fraudolenta” del patrimonio dei Monti Frumentari, “l’unico addirittura, sia per donazioni private sia per pubbliche largizioni, destinato a benefizio del ceto più umile delle nostre classi rurali, – il ceto dei piccoli coloni e dei piccoli fittuari”, avente lo scopo di “anticipare le sementi ai coloni bisognosi a modico interesse”(Cfr. Ibidem: 32).

Fortunato non si asteneva dal denunciare che quella dei Monti Frumentari era una “brutta storia”, fatta di “illecite appropriazioni da parte degli amministratori” e di “inutile vigilanza” delle “autorità tutorie”. Rincarava l’accusa, costretto, suo malgrado, ad accennare alla gestione dei Monti Frumentari sotto il regno dei Borbone: una gestione che, pur non costituendo un modello di amministrazione a causa della “guerra fra lo Stato che li voleva salvaguardati, e i decurionati comunali che li volevano aboliti”,tuttavia  rispondeva alle “antiche leggi napoletane” non ancora abrogate e che rendevano “i consiglieri personalmente e solidalmente responsabili della gestione”, tanto che messi di fronte allo sperpero dei capitali iniziali, avendone ormai facoltà grazie ai citati decreti reali, i consigli comunali sceglievano la via facile della trasformazione dei Monti Frumentari in Casse di Risparmio per mettere una “pietra sepolcrale” sulle loro responsabilità, mentre invece nel diritto pubblico napoletano la prescrizione non avrebbe avuta efficacia (Cfr. ibidem: 32-33).

Non intendendo recedere di un solo passo dalla sua vocazione alla tutela dei diritti dei ceti poveri, Fortunato chiariva al Ministro dell’Interno e ai colleghi del Parlamento che le Casse di Risparmio impiegavano i capitali in mutui ipotecari “a beneficio di noi possidenti”, mentre le Casse di prestanza agraria erano utili più ai piccoli negozianti che ai piccoli coloni.Ancora rivolto al Ministro degli Interni, che aveva definito “antiquata” l’istituzione dei Monti Frumentari, il parlamentare di Rionero precisava che erano pur sempre gli unici istituti volti a favorire le “classi più ignote e ignorate” del paese, “gente poverissima” che conosceva l’Italia e lo Stato solo quando era chiamata al servizio militare, a pagare la tassa del macinato e il dazio al consumo (Cfr. ibidem: 34).

Era iniziato per l’intellettuale lucano il lungo percorso che lo avrebbe visto in prima linea, spesso solo e isolato, nella tutela dei contadini e dei piccoli coloni del Mezzogiorno.

5. La questione demaniale nell’Italia meridionale

È da questa angolazione che nel 1879 Fortunato affronta la questione demaniale. Quella stessa questione che lo storico Rosario Villari ha considerato “il più noto e il più discusso dei problemi sociali del Mezzogiorno”, legato al percorso di privatizzazione dei demani comunali a seguito dell’eversione della feudalità e disastrosamente concluso a vantaggio dei “galantuomini”, lasciando uno strascico infinito e prolungato di contrasti violenti, di recriminazioni aspre, di odi consolidati nel corso di oltre un secolo(Cfr. Villari, 1966: 161).

Il tentativo di riforma del sistema feudale era stato già tentato nella seconda metà del Settecento dall’illuminista Gaetano Filangieri, nato a S. Sebastiano al Vesuvio nel 1753 e scomparso giovane, discendente dei nobili principi di Arianello. Filangieri aveva dedicato l’intera vita, breve ma intensa, – moriva a Vico Equense nel 1788 – ad una critica serrata e radicale al sistema feudale, scrivendo la Scienza della legislazione (Filangieri, 1781-83). In questa immensa opera, la cui pubblicazione era iniziata nel 1781, affrontava le tematiche amministrative, tributarie, finanziarie, irrinunciabili e irrimandabili per avviare un sistema di riforme che potesse dare vigore alla spenta economia dello Stato, spazio alle produzioni e al loro commercio, benessere, diritti e felicità alle popolazioni rurali, affrancandole da pesi e vincoli feudali antistorici e da privilegi ecclesiastici. Il testo di Filangieri non affrontava solo le leggi economiche, finanziarie e politiche dar porre alla base di una società nuova, più equa e giusta, ma metteva in particolare rilievo i temi dell’educazione e dell’istruzione, fattori che l’illuminista riteneva vitali e primari per promuovere in uno stato moderno un effettivo progresso e una fondata civilizzazione delle disagiate e martoriate plebi rurali.

Com’era del tutto prevedibile, in un’epoca di forti contrasti, tra tensioni illuministiche e resistenze baronali, le tematiche affrontate e le riforme proposte furono da un lato accolte in tutta Europa con un consenso vastissimo e, dall’altro, avversate e contrastate con aspre critiche provenienti per lo più dagli ambienti più retrivi e conservatori dello stesso Regno di Napoli. Ciononostante Filangieri, nel 1787, ultimo anno della sua esistenza, veniva chiamato dal ministro borbonico John Acton a far parte del Supremo Consiglio delle Finanze e aveva la possibilità di mettere a nudo i problemi economici e politici che bloccavano la società napoletana e otturavano l’economia, senza compromessi, fidando che gli illuminati sovrani borbonici avrebbero posto fine agli abusi feudali e ai privilegi ecclesiastici.

Frontale era l’attacco di Filangieri ai poteri giurisdizionali dei baroni amministratori dei feudi e netto il suo giudizio negativo sulla questione demaniale, laddove estesi latifondi erano affidati nelle mani “d’un beneficiato, che non può avere alcun interesse nel migliorare un fondo”, punendo così il progresso tecnico, lo sviluppo economico, l’aumento della produzione agricola e condannando i contadini a una vita miserabile.

Lo stesso Ferdinando IV prendeva in esame la questione demaniale, convinto che l’agricoltura andasse rilanciata riducendo drasticamente il latifondo e assegnando i terreni feudali incolti ad una moltitudine di braccianti, contadini, piccoli coloni, che da salariati precari avrebbero dovuto convertirsi in piccoli e medi coltivatori diretti. Il 23 febbraio 1792 veniva emanata la prammatica XXIV De Administratione Universitatum, “per fare ovunque fiorire la meglio intesa agricoltura, sorgente primordiale delle ricchezze”, la quale permetteva di “censire i terreni demaniali di qualunque specie”. La prammatica stabiliva all’art. 4 che nella “censuazione” dei demani si sarebbero preferiti “i bracciali” nei terreni più vicini alle popolazioni; all’art. 5 ribadiva che “fatta la scelta de’ meno provveduti di terreni”, i rimanenti sarebbero stati assegnati mediante sorteggio. Riguardo ai demani feudali, l’art. 12 sanciva che al barone doveva essere attribuita la quarta parte del demanio “per uso de’ suoi animali e cultura”, mentre le altre parti andavano censite e assegnate dai Comuni in enfiteusi a braccianti, contadini, coloni, a compenso della perdita dell’esercizio degli usi civici (Cfr. Prammatica XXIV su http://www.demaniocivico.it/public/public/439.pdf.) .

La prammatica non conseguiva i risultati attesi e non aveva effetti pratici nella realtà socio-economica del Regno, ma convinceva gli strati bassi del ceto rurale che rivendicare condizioni migliori di vita, ottenendo un pezzo di terra incolta da coltivare sottratto al dominio assoluto del barone, senza più vincoli e pesi feudali da sopportare, senza subire abusi e angherie umilianti e degradanti, era legittimo.

L’abolizione della feudalità veniva sancita in seguito con la legge n. 130 del 2 agosto 1806, sotto il governo di Giuseppe Bonaparte, giunto a Napoli al seguito dell’esercito invasore francese. Ciononostante, la ripartizione dei demani sarebbe rimasto un problema irrisolto.

Fortunato, grazie alla sua inclinazione per gli studi storici, approfondiva le travagliate vicende legate alla quotizzazione dei demani e, sul finire degli anni Settanta, – come detto – pubblicava sulla «Rassegna settimanale» La questione demaniale nell’Italia meridionale(Fortunato, 1879). Quella della ripartizione dei demani era una questione che forniva ampi spazi di strumentalizzazione ai partiti dell’opposizione che potevano far leva sulle masse contadine, sempre in “lotta per la terra” contro le usurpazioni dei galantuomini. L’intellettuale lucano, come tra gli altri Franchetti e Salandra, si convinceva che la competenza nella ripartizione delle restanti terre pubbliche e nelle reintegre delle terre usurpate doveva passare dai comuni allo Stato. Peraltro, valutava che le quote comunque assegnate ai contadini, che andavano da ottantatré are a un ettaro e mezzo, erano troppo piccole per assicurare loro il sostentamento di una famiglia che doveva anche accollarsi gli oneri derivanti dal pagamento del “canone al comune e della fondiaria allo Stato”. Era questo il motivo per cui le quote assegnate tornavano al Comune o venivano svendute ai proprietari terrieri o cedute agli usurai a causa di debiti accumulati. A dirla tutta,

“le quotizzazioni, come furono prescritte dalle leggi, non hanno agevolato nell’Italia meridionale se non il monopolio dei terreni nelle mani dei proprietari; esse assieme con le nuovi leggi d’imposte, accrescono, di giorno in giorno, le grandi proprietà a danno delle piccole”(Fortunato, 1911: 88; Villari R., 1966: 164).

Fortunato lamentava l’indifferenza del Ministero dell’Agricoltura davanti al fallimento delle quotizzazioni demaniali ai fini della costituzione di una piccola proprietà contadina. Proprio in quel 1879 i dati negativi risultavano evidenti in pubblicazioni ufficiali (Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio,1879) e attestavano chiaramente che, nonostante fosse vietato per legge vendere le quote, poche restavano in possesso dei contadini poveri.

Per Fortunato l’ignorata questione demaniale era “lievito che fermenta”, era “fuoco che cova l’incendio”, era “la perpetua domanda di terre da dividere al popolo, e non mai divise perché mal possedute da’ prepotenti”, mentre Governo e Parlamento insistevano “nel disconoscere una così grave iattura per tutta la metà del Regno”. L’insuccesso nella divisione delle terre demaniali ai contadini poveri spingeva Fortunato a suggerire provvedimenti eccezionali passando le competenze dai comuni allo Stato e, soprattutto, dato che le quote assegnate tornavano nelle mani dei comuni, dei grandi proprietari o, addirittura, degli usurai, diventava sempre più logico aspettarsi che fosse lo Stato ad assicurare ai contadini i capitali necessari affinché non fossero costretti a cedere o a svendere le loro quote. Considerato, oltretutto, che secondo i calcoli del lucano restavano almeno trecentomila ettari di demani comunali da assegnare, oltre quelli rinvenienti dalle “reintegrazioni di terreni usurpati” e dalla “divisione dei beni ex feudali”(Cfr. Fortunato, 1911: 93-95; Villari R., 1966: 168-170).

L’anno successivo alla pubblicazione delle sue tesi sulla questione demaniale, il 1880, Fortunato veniva eletto in Parlamento e ci sarebbe restato per ben nove legislature, dalla XIVª alla XXIIª, fino al 1909. Sarà ritenuto tra i maggiori esponenti del meridionalismo.

6. L’amicizia tra Giustino Fortunato e il giovane potentino Ettore Ciccotti

Ettore Ciccotti, nato a Potenza nel 1863, proveniva da una famiglia di possidenti terrieri come il più anziano Fortunato nato nella stessa provincia. Il padre Pasquale, liberale e patriota, elemento di spicco di quel nucleo di conservatori benestanti insofferenti a qualsiasi riforma agraria, era stato eletto sindaco di Potenza nel 1861, dopo aver accolto calorosamente Garibaldi.

La personalità del giovane lucano si era sviluppata nell’ambito di quelle famiglie aristocratiche potentine che erano riuscite a imporre la propria supremazia,

“dovuta soprattutto ad una sapiente opera di mediazione tra gli interessi della grossa borghesia terriera e quelli della media e piccola borghesia cittadina di professionisti e piccoli proprietari, grazie alla quale erano riusciti a porsi a capo non solo del partito moderato, ma di tutte le forze liberali antiborboniche della regione” (Signorelli, 1974: 186).

Dalla collisione evidente tra l’educazione patriottica acquisita dal contesto familiare e la triste realtà di arretratezza sociale ed economica del Mezzogiorno, maturava la personalità poliedrica del giovane Ciccotti, “storico, giurista, pubblicista, docente”, poi parlamentare socialista (Cfr. De Pilato, 1923: 23). Tornato laureato a Potenza nel 1884, prendeva le distanze dalla visione mitica del Risorgimento.

Da lì a qualche anno il salentino De Viti De Marco avrebbe denunciato le politiche protezionistiche, pesantemente gravanti sullo sviluppo e la crescita di interi settori produttivi del Mezzogiorno.

 In quei tempi Ciccotti, non ancora socialista, entrava in rapporti amichevoli con il parlamentare Fortunato, sostenendone le tesi:

“… oltre la naturale povertà del suolo, la scarsezza di risorse e le lacerazioni sociali del primo decennio postunitario, il governo non si era preso cura di intervenire in sostegno del Mezzogiorno” (Campanelli, 2013: 48).

I primi contatti tra il maturo Fortunato e il giovane Ciccotti si rinvengono in una lettera del 26 maggio 1886, nella quale l’esperto parlamentare di Rionero soddisfava una richiesta di informazioni relativa al deputato Pasquale Grippo. Una lettera che manifestava la congeniale disponibilità di Fortunato nell’approcciarsi alle persone: “… vogliate benevolmente accogliere l’offerta, che Vi fo di cuore, della mia amicizia” (Fortunato, 1978: 17).

Qualche giorno più tardi, il 31 maggio (Ibidem), Fortunato ringraziava per il dono di un testo sull’evoluzione del diritto a Sparta (Ciccotti, 1886) appena pubblicato da Ciccotti. Appena due mesi dopo, il 28 luglio, l’intellettuale vulturese si congratulava con il nuovo amico per aver dato alle stampe un nuovo testo sulla storia generale del diritto (Ciccotti, 1886), non tralasciando di esprimere la propria soddisfazione personale per aver finalmente incontrato un giovane che “abbandonando le solite e facili vie dell’antiquata e pomposa rettorica delle scuole” intraprendeva“l’arduo cammino della scienza moderna”(Fortunato, 1978: 18).

Il 2 agosto 1891 Ciccotti esprimeva a Fortunato tutto il suo disappunto per come si era svolta la cerimonia di inaugurazione del primo tratto delle Ferrovie Ofantine, un’opera a cui il politico di Rionero aveva dedicato un decennio di attività parlamentare, documentata più tardi in un testo (Fortunato, 1898). L’amareggiato Ciccotti scriveva:

“Ho detto Vostre, e non me ne pento, poiché non può non chiamarle tali chiunque sa (e chi può non saperlo?) quanta parte dell’impegno e dell’opera Vostra avete speso per esse: ed è uno spettacolo de’ non meno edificanti, tra i tanti della nostra provincia, quello di vedere proprio oggi il Vostro nome, se non pretermesso a dirittura, per lo meno non ricordato come meriterebbe”(Fortunato, 1978: 24).

Il 5 agosto il parlamentare lucano replicava vestendo i panni consueti della modestia e dell’umiltà, ma lamentando la pochezza della rappresentanza politica della Basilicata: “… ho fatto del mio meglio per unire le forze sane della nostra rappresentanza, e che ogni mio intento venne meno d’innanzi all’egoismo brutale di chi meno Voi sospettate”(Ibidem: 25).

In relazione all’ingratitudine per non essere stato considerato durante la cerimonia di inaugurazione del primo tratto delle Ofantine, rispondeva che non gli importava più di tanto, pur ricordando quanto avesse fatto in favore del ministro dei Lavori Pubblici Ascanio Branca (deputato della Sinistra storica fino al 1882, nel 1891 ministro nel governo di Rudinì), quando era un semplice “candidato di opposizione” (Cfr. Ibidem).

Sulla sconfortante vicenda, manifestando il suo noto pessimismo, crescente con l’avanzare degli anni, concludeva amaramente:

“Oggi, ministro, tutti gli si prostano a’ piedi […] La glorificazione della forza e del successo: ecco l’unico, il solo criterio morale delle genti meridionali. Delle quali, purtroppo, io non ho mai avuto un alto concetto. Ma, purtroppo ancora, più vado avanti negli anni e più la cattiva opinione si nutre in un sentimento di profondo disprezzo”(Ibidem: 24-25).

Nel 1891 Ciccotti si sarebbe trasferito a Milano per insegnare Storia antica presso la Regia Accademia scientifico-letteraria e avrebbe aderito nel 1892 al Partito dei lavoratori italiani (dal 1895 Partito Socialista), subendo il clima di persecuzione illiberale dell’ultimo decennio dell’Ottocento persino in ambito accademico, tanto da doversi trasferire a Pavia nel 1897. Coinvolto nei tragici moti del carovita di Milano nel mese di maggio del 1898 (Ciccotti, 1917: 6), si rifugiava in Svizzera. Espulso da Ginevra riparava a Losanna dall’amico Vilfredo Pareto, il quale nelle Sei lettere sull’Italia(Pareto, 2018) condannava le politiche protezionistiche e il carattere autoritario dei governi presieduti da Francesco Crispi. Nella stessa Losanna Ciccotti scriveva il testo Attraverso la Svizzera(Ciccotti, 1899), dedicandolo all’amico Napoleone Colajanni (Campanelli, 2013: 52-53).

Fallito il tentativo di di Rudinì e di Pelloux di rendere permanenti le leggi liberticide, a causa dell’opposizione risoluta dell’Estrema Sinistra in Parlamento e in conseguenza della vittoria delle opposizioni nelle amministrative di Milano del 1899, Ciccotti rientrava in Italia e le elezioni del 1900 lo portavano in Parlamento, punto nevralgico per le sue battaglie meridionaliste (Ibidem: 56).

6. Lapolemica tra Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti

Francesco Saverio Nitti, citato diffusamente da Giustino Fortunato,aveva pubblicato, nel 1900 a Torino, un volumetto sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato dal titolo Nord e Sud (Nitti, 1900). All’epoca trentaduenne, già docente ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario presso l’Università di Napoli, aveva affrontato, come riconosciuto da Fortunato, il tema del bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97 portando alla luce l’iniqua ripartizione della spesa pubblica in Italia: dall’unità in poi il Mezzogiorno aveva subito un continuo e costante drenaggio di risorse atto a favorire lo sviluppo infrastrutturale e industriale dell’Italia settentrionale. Nitti, in seguito nel 1903, pubblicava il volume Principi di scienza delle finanze(Nitti, 1903), un’opera dalla fama mondiale adottata da diverse università in Italia e all’estero. Eletto in Parlamento nel 1904, metteva le sue competenze a disposizione di Giovanni Giolitti, partecipando all’inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Basilicata e della Calabria, impegnandosi nella costituzione dell’Ente Volturno e nelle trattative affinché nascesse a Bagnoli l’Ilva, al fine di restituire all’ex capitale Napoli uno spiraglio di produzione industriale.

In Nord e Sud, l’economista andava ben oltre i meriti che Fortunato gli aveva riconosciuto: aveva persino sgombrato il campo da analisi di comodo che tentavano di ridurre a mera speculazione antropologica la natura del divario, presentando analisi, studi, statistiche che dimostravano scientificamente che il divario tra le due aree del paese era diventato così consistente in relazione a precise scelte di politiche finanziarie, economiche e doganali, contrapponendosi alla tesi “molto comune […] non solamente radicata nel Nord d’Italia”, che il Sud avesse sfruttato il bilancio nazionale. Nitti assicurava che i meridionali non pagavano affatto meno tasse e meno imposte e non conservavano i propri risparmi in maniera improduttiva. Anzi, il Mezzogiorno fino al 1860 aveva conservato “più grandi risparmi che in quasi tutte le regioni del Nord”, vi si “viveva una vita molto gretta, ma dove il consumo era notevolmente alto”. E fino a prima delle politiche doganali del 1887, tra il 1880 e il 1888, “la ricchezza agraria del Veneto non era superiore a quella della Puglia, e tra Genova e Bari, tra Milano e Napoli era assai minore differenza di sviluppo economico e industriale che ora non sia”. Ma a fine Ottocento, “insieme a una diminuzione nella capacità di consumo”, si notavano chiaramente

“i sintomi allarmanti dell’arresto del risparmio, dello sviluppo della emigrazione povera, della pigra formazione dell’industria di fronte al bisogno crescente. Tra il 1870 e il 1888 la importanza del Mezzogiorno nella vita sociale ed economica dell’Italia era molto maggiore che oggi non sia” (Cfr. Nitti, 2000: 7-8).

Emergeva chiaramente dall’analisi dei bilanci dello Stato dal 1862  – anno di unificazione del sistema tributario con l’estensione agli altri Stati preunitari del sistema fiscale piemontese ad opera del ministro livornese Pietro Bastogi, – al 1896-97, che il divario Nord-Sud era notevolmente cresciuto, non solo a causa di una iniqua ripartizione territoriale della spesa pubblica, ma anche per la deleteria sostituzione del “semplice e quasi elegante organismo della finanza napoletana” con gli ordinamenti finanziari del Regno di Sardegna, gestiti da una macchina burocratica dal “numero strabocchevole di agenti di ogni grado…” (Cfr. Ibidem: 32-33). Grazie agli studi di Nitti iniziava a delinearsi un inedito quadro delle finanze degli Stati preunitari:

“senza l’unificazione dei varii Stati, il regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle risorse era necessariamente condannato al fallimento. La depressione finanziaria, anteriore al 1848, aggravata fra il ’49 e il ’59 da un’enorme quantità di lavori pubblici improduttivi, aveva determinata una situazione da cui non si poteva uscire se non in due modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a quelle di altro stato più grande”(Ibidem: 18).

Ai Borbone potevano essere mosse le critiche più disparate, “ma qualunque il giudizio che si dia di essi non bisogna negare che i loro ordinamenti amministrativi erano spesso ottimi; che la loro finanza era buona e, in generale, onesta”(Ibidem: 19). E queste considerazioni, coraggiose ed esplosive per quei tempi, Nitti le ricavava da documenti inoppugnabili: i bilanci napoletani dal 1848 al 1859 pubblicati dal Ministero delle Finanze e la relazione di Vittorio Sacchi, inviato fiduciario a Napoli del Conte di Cavour, in qualità di segretario generale delle finanze dal 1° aprile al 31 ottobre 1861.

Le lucide analisi di Nitti indicavano chiaramente la responsabilità delle politiche attuate dai governi succedutisi nel primo quarantennio unitario e Fortunato, da sempre impegnato a tutelare i valori ideali dell’unificazione nazionale contro i nostalgici rigurgiti borbonici, alla domanda se ritenesse l’opera del giovane Nitti interamente positiva rispondeva:

“No, perché egli volle provar troppo, credendo, se più avvedutamente, non meno erroneamente de’ non pochi, i quali sostennero la stessa tesi, che il Mezzogiorno si fosse ritrovato, al ’60, in condizioni relativamente migliori di quelle del resto d’Italia” (Fortunato, 1993: 45).

E, “profondamente convinto del contrario”, si affrettava “a dissipare cotesto equivoco” citando Monzilli e Zammarano, ai quali riconosceva “il patriottico intento di aver reso omaggio alla verità”(Ibidem: 46), nonostante fossero stati entrambi rinviati a giudizio nel processo del noto scandalo della Banca Romana.

Fortunato non accettava si confrontasse il passato con il fine di giudicare in termini negativi il presente, pur ammettendo che “non tutto quello che giustamente potevamo sperare, noi meridionali abbiamo ottenuto dalla subitanea sparizione della nostra autonomia”, ma “nulla, per Iddio, vi abbiamo perduto!”, dato che nonostante le modeste imposte, il lieve debito pubblico, l’abbondante moneta circolante, la “costituzione economica dello Stato era impotente a dare impulso alla produzione della ricchezza”.  E, con intenti riduttivi, riteneva un’eccezione le “poche industrie privilegiate del Liri e del Sarno, tenute su a prezzo di esteso contrabbando da svizzeri e da francesi”, rispetto ad un’economia prettamente agricola (Cfr. ibidem: 50-51).

Risolutamente Fortunato continuava a ripetere che la crisi non era dovuta all’annessione, essendo il Mezzogiorno entrato “a far parte della nuova Italia assai men ricco e assai meno progredito delle altre regioni”, concedendo a chi si opponeva alle sue tesi che “la politica troppo fantasiosa dello Stato unitario” non aveva contribuito a superare il divario iniziale. In definitiva, il Mezzogiorno non era diventato “più povero di quello che fosse al ‘60” (Cfr. Ibidem: 57).

Un atteggiamento che non lasciava indifferente Nitti che nel 1903 scriveva: “Quando pubblicai il mio libro Nord e Sud sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discordia”. Il melfese riteneva, invece, che le sue analisi potevano produrre del bene, aumentare il controllo, diminuire gli abusi e che occorreva, al contrario, temere “la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’altra” (Cfr. Nitti, 1978: 14-15).

7. Questione meridionale e riforma tributaria

Nel luglio del 1904 Fortunato dava alle stampe un testo ritenuto tra i più importanti: La questione meridionale e la riforma tributaria(Fortunato, 1904), appena tre mesi dopo l’approvazione della legge speciale per la Basilicata, emanata il 31 marzo 1904. Le profonde convinzioni di Fortunato sono riportate dall’Editore Calice nella nota introduttiva alla ripubblicazione del testo con il titolo nuovo Che cosa è la questione meridionale?Il 26 dicembre 1902, a Melfi, presente il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Zanardelli, Fortunato aveva ribadito l’urgenza di una riforma tributaria che alleggerisse il carico fiscale sulla ricchezza immobiliare e sui consumi, deplorando i meridionali che andavano “all’arrembaggio del pubblico erario”. Il politico di Rionero sarà l’unico parlamentare lucano a votare contro la legge speciale, perché contrario alla spesa per lavori pubblici e fermamente convinto che solo una riforma fiscale con l’introduzione di un’imposta progressiva personale sui redditi fosse in grado di rivitalizzare la proprietà fondiaria e attenuare il carico sulla massa dei consumatori, in particolare del Mezzogiorno (Cfr. Fortunato, 1993: 5-6).

Erano passati 24 anni da quando Fortunato aveva per la prima volta fatto il suo ingresso in Parlamento e da allora aveva acquisito una conoscenza e un’esperienza unica, mai cedendo alle lusinghe di incarichi ministeriali per preservare la sua libertà di pensiero. Dagli anni della «Rassegna settimanale» aveva vissuto da protagonista tutte le fasi storiche, spesso traumatiche, della vita politica italiana: il trasformismo del 1882 inaugurato da Depretis, la tariffa doganale del 1887, i fasci siciliani, lo scandalo della Banca Romana, la persecuzione delle formazioni socialiste e anarchiche, la violenta repressione dei moti del carovita del 1998, l’avvento del giolittismo.

La tariffa protezionista del 1887, votata a larga maggioranza in Parlamento, ˗ non da Fortunato ˗ aveva garantito con il dazio sul grano il silenzio e la complicità dei grandi proprietari latifondisti, ma aveva determinato un forte contrasto con i comparti agricoli più intensivi e produttivi; innanzitutto con il settore della viticoltura, le cui esportazioni con la Francia erano entrate in una profonda e irrisolvibile in crisi. Antonio De Viti De Marco, nel 1890, insieme economisti Maffeo Pantaleoni e Ugo Mazzola, aveva acquisito la maggioranza azionaria della rivista «Giornale degli economisti», diventandone condirettore. De Viti De Marco, capostipite della tesi antiprotezioniste e del liberismo economico, già nel 1891 pubblicava sulla rivista che dirigeva un articolo di denuncia del protezionismo che – a suo dire – aveva alterato il corso dello sviluppo economico, sacrificando il mondo agricolo più produttivo.

Nel riprendere l’articolo del salentino, Rosario Villari, scriveva che il protezionismo aveva deviato “i capitali e le energie dai settori più produttivi”, instaurato “un rapporto privilegiato e parassitario tra produttori e consumatori nocivo alla vita economica e politica” e aggravato e reso permanente, “in particolare, lo squilibrio tra Nord e Sud” (Cfr. Villari R., 1966:199). De Viti De Marco condividevale tesi di Mazzola sul «connubio tra protezionisti industriali e agrari» (Mazzola, 1891: 190-198): il dazio sul grano era «il prezzo che i così detti ceti agrari, auspici gli on. Branca e Salandra» avevano ricevuto in cambio dell’appoggio ai “dazi industriali propugnati dagli on. Ellena e Luzzatti” (De Viti De Marco, 1891). Ma i dazi sul grano e sul riso, secondo l’intellettuale pugliese, erano stati inefficaci, in quanto la produzione di grano e riso era quasi sempre sufficiente al consumo interno, mentre la chiusura del mercato francese causato dalla tariffa doganale aveva comportato la caduta innaturale dei prezzi di olio e vino. Inoltre, l’applicazione della tariffa aumentava i prezzi dei manufatti prodotti in regime protetto dalle industrie del Nord che andavano a gravare soprattutto sul Mezzogiorno, oltre che sulle entrate dello Stato; infatti,

“i produttori di grano, di olio, di vino, di riso, di bestiame, ecc., videro a un tratto falcidiato il loro reddito non solo in ragione della caduta dei prezzi agricoli, ai quali vendevano i loro prodotti, ma ancora in ragione dei prezzi industriali, ai quali compravano!” (Ibidem).

Per De Viti De Marco queste erano le due cause della “depressione economica cronica dell’Italia meridionale. L’una dovuta al protezionismo francese, l’altra al protezionismo italiano”. Per il salentino non vi erano dubbi: i maggiori prezzi dei manufatti industriali nazionali erano dovuti ai costi di produzione non competitivi di un’industria nazionale che riteneva poco produttiva. Le tariffe doganali avevano deviato “il capitale e il lavoro dagl’investimenti più fruttiferi”, diminuendo complessivamente “la produzione nazionale e quindi la ricchezza privata del paese”, da cui derivavano le entrate pubbliche (Cfr. ibidem; Villari R., 1966: 202-203).

Fortunato, che aveva un’alta considerazione dell’orientamento liberista, antiprotezionista, antisocialista del «Giornale degli economisti», ai fini di dare un proprio contributo, ricordava il trattato di commercio del 1863 con la Francia, rinnovato nel 1881, che aveva assicurato ai prodotti agricoli “larghi sbocchi sui mercati esteri, così che in breve la loro esportazione crebbe in produzione doppia per gli oli, tripla per gli agrumi, décupla per i vini” (Fortunato, 1993: 39). Mentre, al contrario, il nuovo regime doganale del 1887, non solo aveva fatto alzare il prezzo dei prodotti agricoli nel mercato estero, soprattutto aveva causato l’aumento del costo della vita, generando quella crisi che in Parlamento aveva fatto dire al deputato Giusso che “soppressa la concorrenza estera, le industrie dell’Alta Italia” avevano trovato “nell’Italia meridionale la loro colonia di sfruttamento”(Ibidem: 37-38).

Secondo Fortunato, “dopo la dimostrazione datane da Colajanni”, era diventata insostenibile la tesi che in compenso il Mezzogiorno avesse ottenuto il dazio sul grano, quando era risaputo che la produzione granaria era solo un terzo di quella nazionale, In realtà, l’intellettuale lucano era del parere che la “suprema legge del progresso, […] quella del generale buon mercato delle cose” fosse stata abolita da “una legge artificiale” che obbligava “il Mezzogiorno agricolo a comperare a più caro prezzo i prodotti industriali del nord”. Una tariffa doganale le cui responsabilità non andavano addossate al nord Italia perché “il buon mercato delle cose” fu arrestato il giorno in cui i meridionali diedero in Parlamento “il voto, presso che unanime, fiduciosi che o tutto sarebbe andato come nel migliore de’ mondi” o che il sacrificio del Mezzogiorno sarebbe stato temporaneo, “sin tanto che le industrie bambine fossero diventate grandi e vigorose…” (Cfr. ibidem: 38).

Anche sui nuovi trattati con l’Austria (1891), Germania (1892), Francia (1898), Fortunato aderiva alle osservazioni di De Viti De Marco, fiducioso che avrebbero comportato la riduzione dei dazi industriali interni e di quelli agricoli per l’estero (Cfr. ibidem: 40).

La riforma tributaria, banco di prova dell’impegno politico di Fortunato, trovava il rionerese estremamente critico col sistema adottato della proporzionalità “meccanica”, perché pesava sulle fasce poco agiate della popolazione favorendo “il capitale e i profitti delle industrie”, dato che questi sfuggivano “in tutto od in parte, alla imposta”, mentre “i terreni e i fabbricati, no”. A conforto delle sue tesi il vulturese citava Pantaleoni e Bodio, i quali “studiando con intenti e metodi scientifici il rapporto tra la ricchezza e le imposte delle varie regioni d’Italia nel decennio dall’80 al ’90, resero evidente di quanto la proporzione fosse a danno del Mezzogiorno”(Cfr. ibidem: 42-43).

Soprattutto era stato il giovane Francesco Saverio Nittia completare e colmare le carenze degli studi di Pantaleoni e di Bodio, valorizzando i dati di Colajanni e Ciccotti, ˗ “primi fra gli studiosi del fenomeno meridionale” ˗, e confortando le loro acute osservazioni con minuziose “indagini statistiche”, le quali attestavano che vi era “fra il nord e il sud della penisola, una grande sperequazione di tributi”, ma anche demolendo la “strana leggenda, che il Mezzogiorno pagasse poche imposte e contenesse grandi ricchezze”(Cfr. ibidem: 44-45).

 8. Critiche di Gramsci nei riguardi di Giustino Fortunato

Sul progetto di Sonnino e Franchetti, Antonio Gramsci, in Alcuni temi sulla quistione meridionale, scriveva che aveva avuto l’aspirazione di

“creare nell’Italia meridionale uno strato medio indipendente di carattere economico che funzionasse […] da ‘opinione pubblica’ e limitasse i crudeli arbitrii dei proprietari da una parte e moderasse l’insurrezionismo dei contadini poveri dall’altra”(Gramsci, 2005: 182).  

Il grande intellettuale sardo affermava convinto che il “piano governativo di Sonnino e Franchetti” non aveva avuto “neanche l’inizio di una attuazione” dato che, nel quadro delle relazioni particolari Nord-Sud, l’organizzazione dell’economia nazionale e dello Stato era “tale per cui la nascita di una classe media diffusa di natura economica” e quindi di una “borghesia capitalistica diffusa” era “resa quasi impossibile”(Cfr. ibidem: 183)

Per Gramsci “ogni accumulazione di capitali sul luogo e ogni accumulazione di risparmi” era resa impossibile “dal sistema fiscale e doganale e dal fatto che i capitalisti proprietari di aziende” non trasformavano “sul posto il profitto in nuovo capitale” perché non erano del posto(Ibidem).

Gramsci riteneva che i governi liberali non avevano avuto altro obiettivo che conservare quel “mostruoso blocco agrario” che aveva funzionato da intermediario e da “sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche”. Non rilevava all’interno di quel sistema “nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi”, se non al di fuori del Mezzogiorno, nei “gruppi politici agrari conservatori, specialmente della Toscana, che nel Parlamento erano consorziati ai conservatori del blocco agrario meridionale” e di cui facevano parte Franchetti e Sonnino, definiti benevolmente “borghesi intelligenti”, spaventati dallo spettro dell’anarchismo che Bakunin rappresentava allora nel Mezzogiorno (Cfr.ibidem: 181-183).

Si possono cogliere nelle parole di Gramsci, allo stesso tempo, sia profonde discordanze dal pensiero di Fortunato, sia attinenze tematiche.Il politico sardoconsiderava Giustino Fortunato e Benedetto Crocei massimi esponenti di un “blocco intellettuale” a protezione degli interessi del “blocco agrario”, ritenendoli “i reazionari più operosi della penisola”, avendo consentito che “laimpostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria”(Cfr. ibidem: 184-185).

Peraltro, lo storico Rosario Villari ha definito il meridionalismo dei “rassegnati” (dalla rivista Rassegna Settimanale) “insolubile nell’ambito della costruzione liberale dello Stato” (Villari R., 1966: VIII). Un meridionalismo conservatore, liberale, quindi alternativo a quello democratico o socialistache avrebbe ripreso vigore nel secondo Dopoguerra con la fine della monarchia sabauda e l’inizio del corso repubblicano e democratico.

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