di Salvatore Lucchese
Riassunto
Con il presente articolo si intendono evidenziare alcuni aspetti della riflessione salveminiana sul tema dell’unificazione europea, inquadrandoli nella più ampia cornice del dibattito sul federalismo europeo sviluppatosi tra il XIX ed il XX secolo. Il tema dell’unità europea trova in Salvemini un suo strenuo difensore ed un suo lucido teorico sia dopo la fine della Grande guerra sia al termine della Seconda guerra mondiale. In una fase storica quale quella attuale, che si caratterizza per l’accentuarsi dei rigurgiti imperialisti, nazionalisti, xenofobi, razzisti e classisti, è ora di cominciare a recuperare le sue riflessioni politiche sul federalismo infra e sovranazionale, riportandole ad un filone politico-culturale ricco di analisi realistiche, riflessioni critiche e proposte politiche ancora oggi valide.
Parole chiave: Salvemini, Federalismo, Europa, Pace.
L’idea di unità europea nella cultura politica dell’‘800
Nel cuore dell’Europa, la fine dell’Impero napoleonico (1815) e la Restaurazione delle monarchie assolute, cementate dalla Santa Alleanza, non valgono ad estinguere la diffusione delle idee liberali e democratiche.
Il principio di nazionalità si afferma a livello internazionale, favorendo lo scoppio di in una serie di moti rivoluzionari (1820-1821; 1830-1831; 1848), che segnano il progressivo declino dell’ordine geopolitico che il Congresso di Vienna (1814-1815) ha imposto al Vecchio continente.
Nella seconda metà dell’‘800, la formazione degli Stati nazionali culmina con la proclamazione della nascita del Regno d’Italia (1861) e del secondo Reich tedesco (1871). Contemporaneamente si assiste alla torsione del principio progressivo ed emancipativo di nazionalità in quello razzista, reazionario ed autoritario di nazionalismo.
Infatti, nella prima fase della storia della globalizzazione economica, agli incipienti processi di liberalizzazione ed integrazione dei mercati a livello internazionale, favoriti dalla Seconda rivoluzione industriale, si accompagnano le dinamiche politiche dell’imperialismo e del nazionalismo militarista, che condurranno allo scoppio della Prima guerra mondiale (1914-1918). Come è stato osservato:
La potenza aveva preso il sopravvento sul profitto. Per quanto profonda fosse l’interpenetrazione dei loro ambiti, in definitiva fu la guerra a dettare la sua legge al commercio (Polanyi, 1981: 54).
Eppure i processi di costruzione dei moderni Stati nazionali sono accompagnati da una riflessione teorico-politica che pone con forza, lucidità e chiarezza critica l’esigenza della formazione degli “Stati uniti di Europa”, denunciando i pericoli insiti nel paradigma della sovranità.
Non a un caso in quegli anni, il federalismo viene parimenti configurato come il principio critico e la formula politico-istituzionale capace di svelare le degenerazioni ed i pericoli insiti nella sovranità assoluta degli Stati nazionali, tanto monarchici quanto repubblicani, con la ri-proposizione della dicotomia federalismo/centralismo, che con J. Althusius fu tipica della genesi del federalismo moderno (cfr. Althusius, 1981).
In Francia, J. Proudhon (1809-1865) è tra i primi intellettuali a teorizzare la nascita della Repubblica degli Stati Uniti d’Europa, fondata sulla libertà dei popoli e sul superamento della concezione etno-naturalistica delle nazioni (cfr. J. Proudhon, 2000).
In Italia, G. Mazzini (1805-1872) proietta il suo impegno teorico-politico in favore della libertà e dell’indipendenza nazionale sullo sfondo di una visione europeista di matrice democratico-repubblicana: la Santa Alleanza dei Popoli fondata sulle libertà nazionali (cfr. Mastellone, 1994).
Se il pensiero europeista di Mazzini oscilla tra visioni profetiche e lucide formulazioni giuridico-politiche (cfr. Gatto, 1995), l’opera di C. Cattaneo (1801-1869), invece, si caratterizza per un’analisi ed una proposta politica federalista accuratamente articolata tanto sul piano interno, il processo di unificazione risorgimentale declinato in chiave federale, quanto su quello internazionale, la fondazione degli Stati Uniti d’Europa. Ancora prima di costituirsi come strumento di analisi propositiva e risolutiva dei problemi giuridico-politici, per Cattaneo il federalismo rappresenta una “teoria della libertà” (cfr. Bobbio, 1971), concepita in termini dinamici ed evolutivi. Coerentemente alla sua impostazione di fondo, il pensatore lombardo ritiene che in Europa l’egemonia del modello statuale francese, fondato sull’assioma assolutista della sovranità statale, conduca inevitabilmente all’anarchia delle relazioni internazionali, che sfociano in uno stato di guerra perpetuo, strutturale nemico della libertà, della democrazia e del progresso dei popoli. Da qui la necessità di un governo europeo fondato sulla limitazione della sovranità militarista ed aggressiva, in cui si esprime al massimo grado la volontà di potenza delle nazioni (cfr. Cattaneo, 1962).
Le proposte europeiste rimangono inascoltate. Nella seconda metà dell’‘800 il continente vede accrescersi le rivalità economiche, politiche e culturali tra i vari Stati nazionali, che si contendono la spartizione dell’Africa e dell’Asia nonché l’egemonia sui Balcani. Lo scoppio della Prima guerra mondiale segna il tragico ritorno dello stato di natura hobbesiano: il progetto kantiano di una Pace perpetua (cfr. Kant, 1968) rimane drammaticamente disatteso. La sovranità assoluta degli Stati nazionali conduce l’Europa e il mondo verso la catastrofe generale.
2. L’idea di unificazione europea nel primo dopoguerra
La Prima guerra mondiale lascia l’Europa sotto un cumulo di macerie e di rancori nazionalistici, che invece di attenuarsi si acuiscono ulteriormente, contribuendo all’affermazione dei regimi totalitari e allo scoppio della Seconda guerra mondiale (1939-1945).
La Grande guerra segna l’inizio del declino della supremazia europea a livello internazionale, determinando anche il crollo dei quattro imperi presenti nel nostro continente (tedesco, asburgico, russo ed ottomano), con il conseguente stravolgimento degli equilibri geopolitici, rivisti esclusivamente in funzione degli interessi delle potenze vincitrici.
La Conferenza di Parigi (1919-1920), convocata al termine del conflitto, anziché seguire le indicazione del presidente statunitense Wilson, che aveva posto l’accento sull’esigenza di una “pace senza vittoria”, preferisce imporre una pace punitiva alle nazioni vinte, suscitando in esse funesti desideri di rivalsa. È il caso specifico della Germania che, riconosciuta unica responsabile del conflitto, viene obbligata a pagare una cifra enorme quale riparazione dei danni di guerra e privata di alcuni dei suoi territori più ricchi.
Nel frattempo la proposta wilsoniana di una “Lega della pace” atta a promuovere e garantire l’autodeterminazione dei popoli, la democratizzazione della vita internazionale, il disarmo e la libera circolazione dei traffici, dà un notevole impulso alla fondazione della Società delle Nazioni (1919). Sembra che in questo modo possa realizzarsi il sogno di una federazione internazionale.
In Italia, tra le molte voci entusiastiche per l’inizio di una nuova era di pace e prosperità se ne levano anche alcune fortemente critiche, che denunciano la debolezza politica della Società delle Nazioni unitamente alle sue carenze istituzionali dal punto di vista della dottrina federale dello Stato.
Attraverso una sintesi originale del pensiero del Federalist, dello storicismo tedesco contemporaneo e della teoria della Ragion di Stato, economisti liberali e democratici quali L. Einaudi (1874-1961), A. Cabiati (1872-1850) e G. Agnelli (1866-1945), pur condividendo l’afflato morale della proposta wilsoniana, ne criticano sia la sua inadeguatezza rispetto all’individuazione delle cause vere dei conflitti interstatali, sia la conseguente inidoneità della Società delle Nazioni ai fini della realizzazione e della salvaguardia della pace.
Einaudi, Cabiati ed Agnelli sono conviti che la causa principale della guerra debba essere individuata nel dogma della sovranità assoluta degli Stati, sfociante inevitabilmente in una politica di potenza e di espansione militare. Pertanto, secondo i tre federalisti liberali, il limite della Società delle Nazioni è ravvisabile nel fatto che essa, lungi dal realizzare una Federazione internazionale, permane nel campo delle confederazioni, ossia delle associazioni di Stati, che rimangono gli unici veri detentori della sovranità.
A loro parere, solo nell’ambito di una Federazione internazionale sarebbe stata garantita la pace, la sicurezza e lo sviluppo, con la conseguente creazione di un mercato comune, caratterizzato dall’equiparazione del tenore di vita dei popoli verso i livelli più alti e dall’estensione delle riforme sociali. Con ciò Einaudi, Cabiati ed Agnelli intendono sottolineare i vantaggi che il mondo del lavoro avrebbe ottenuto dal progetto federale, al fine di coinvolgere anche le forze socialiste nell’edificazione degli Stati Uniti d’Europa (cfr. Agnelli, Cabiati, 1918; Einaudi, 1920, 1923).
Non a caso negli stessi anni nel campo socialista, partendo dalla proposta wilsoniana, C. Treves (1869-1933) e G. Mondolfo (1875-1958) cercano di conciliare i principi del federalismo e del socialismo, sottolineando il ruolo attivo che le forze sociali emergenti avrebbero dovuto ricoprire nella realizzazione dei processi d’integrazione sociale, economica, politica e culturale a fronte delle semplici proclamazioni giuridico-diplomatiche dei governanti. Tuttavia, in entrambi gli autori gli aspetti precipuamente istituzionali rimangono sullo sfondo della loro riflessione, in quanto essi non riescono a fuoriuscire del tutto dagli schemi del positivismo marxista (cfr. Treves, 1918; Mondolfo, 1919).
3. Il dibattito europeista nella Resistenza
Nel primo dopoguerra le istanze di rinnovamento sociale, economico, politico e culturale che attraversano vari paesi europei sull’onda non solo della creazione della Società delle Nazione, ma anche della Rivoluzione sovietica (1917), sono duramente frustate dall’affermazione dei regimi totalitari: il Fascismo in Italia (1922); il Nazionalsocialismo in Germania (1933) e la degenerazione stalinista della Rivoluzione russa (1929). Il sogno degli Stati Uniti d’Europa – declinato ora in chiave politico-istituzionale ora in chiave sociale – crolla sotto i colpi delle dittature totalitarie, che sperimentano la forza del loro potenziale bellico e la loro capacità egemonica in occasione della guerra di Spagna (1936-1939).
Nel cuore dell’Europa la Germania prepara la sua rivincita, ferocemente alimentata da un sentimento di rivalsa che assume una connotazione marcatamente razzistica ed antisemita, facendo precipitare il mondo nella Seconda guerra mondiale (1939-1945). Eppure, nell’ambito dei movimenti della resistenza contro il fascismo e il nazionalsocialismo, si riprendono le riflessioni recenti e remoti del pensiero federalista per rielaborarlo criticamente e proporlo come modello politico alternativo alle “società chiuse”.
Nelle file della Resistenza italiana il dibattito è quanto mai vivace ed articolato e vi si intrecciano in modo originale i temi del federalismo infranazionale con quelli del federalismo sovranazionale passando dagli aspetti politico-istituzionali a quelli socio-economici. Tra i principali fautori del federalismo troviamo, solo per citare alcuni dei nomi più famosi, C. Rosselli, C. Berberi, G. Peyronel, N. Bobbio, I. Silone, A. Repaci, D. Galimberti, S. Trentin ed A. Olivetti (cfr. Malandrino, 1990; 1998).
Ricollegandosi alla lezione di Cattaneo, Peyronel (1913-2009) formula una definizione di federalismo in cui risultano complementari non solo gli aspetti del federalismo sovranazionale con quelli del federalismo infranazionale, ma anche quelli delle autonomie socio-economico-culturali con quelli delle autonomie politico-istituzionali (cfr. Peyronel, 1944).
Silone (1900-1982) rilancia il progetto di unificazione europea in chiave socialista, sottolineando il ruolo attivo che avrebbero dovuto ricoprire le associazioni delle masse lavoratrici nell’esercizio di funzioni e compiti sociali, economici e politici sino ad allora monopolizzati dal mercato e dalla burocrazia statale (cfr. Silone, 1942).
Il movimento resistenziale italiano esprime con la Carta di Chivasso (1943) uno tra i più significativi documenti federalisti ed europeisti. In esso vi sono espresse istanze di ampia autonomia, di federalismo interno, di autonomismo linguistico-culturale e di europeismo (Malandrino, 1998: 110-112).
Tra i vari progetti presentati durante la guerra e la Resistenza, il Manifesto di Ventotene (cfr. Spinelli, Rossi, 1982) rappresenta la formulazione più chiara, nitida, rigorosa e consequenziale del federalismo europeo. Esso venne redatto nel 1941, il periodo di massima espansione delle potenze dell’asse, da due antifascisti confinati a Ventotene: Altiero Spinelli (1907-1986) ed Ernesto Rossi (1897-1967) e pubblicato da Eugenio Colorni (1909-1944) nel 1944. Gli autori, provenienti da formazioni politico-culturali differenti, sono accomunati da un razionalismo critico, sostanziato dall’approfondimento di vari filoni di pensiero: il federalismo risorgimentale; la letteratura federalista anglosassone di derivazione hamiltoniana; le analisi dei teorici tedeschi della “Ragion di Stato”.
La tesi di fondo del testo individua negli Stati nazionali i responsabili di una perpetua situazione di bellum omnium contra omnes. Tuttavia, la sconfitta del nazifascismo avrebbe aperto in Europa un periodo di profondi cambiamenti, capaci di evolvere nella direzione della realizzazione dell’unificazione europea. Progetto questo che sarebbe stato promosso con forza dalle masse e dalle élites governanti dei paesi democratici dal Movimento federalista europeo. Soltanto la realizzazione del federalismo europeo avrebbe consentito di intraprendere iniziative progressiste, evitando, così, il ritorno degli schemi usuali degli Stati nazionali.
4. G. Salvemini e i problemi dell’unificazione europea
La fine della Seconda guerra mondiale lascia l’Europa e il mondo in un mare di fiamme, distruzioni e vittime – i morti furono oltre sessanta milioni – determinando anche enormi conseguenze politiche: l’abbattimento dei regimi nazifascisti; la ridefinizione della carta d’Europa; il definitivo declino politico-militare della Gran Bretagna e della Francia; l’affermazione internazionale degli USA e dell’URSS.
Le due superpotenze cominciano ad esercitare un potere mondiale, a cui non sfugge neanche la nuova organizzazione internazionale, l’ONU (1945), sorta con lo scopo di evitare lo scoppio di altre guerre. Attorno agli USA e all’URSS il mondo si divide in due blocchi contrapposti, tra i quali comincia la guerra fredda. Le aree di maggiore tensione sono la Grecia, la Corea e la Germania divisa in due Stati: Germania federale e Repubblica Democratica tedesca. La guerra fredda determina la creazione di due alleanze militari contrapposte: la NATO (1949) e il Patto di Varsavia (1955). Comincia la corsa agli armamenti nucleari e una dura repressione contro gli oppositori interni sospettati di favorire il blocco avversario.
In questa nuova cornice politica, si moltiplicano le iniziative, gli incontri e i convegni europeisti che vedono il Movimento Federalista Europeo proseguire la sua opera di analisi e propaganda politica in favore dell’unificazione del Vecchio continente. In modo specifico, dopo l’appello lanciato nel giugno del 1947 dal ministro degli esteri USA Marshall per l’unificazione economica dell’Europa, quale premessa necessaria al finanziamento della sua ricostruzione, si assiste ad una ripresa delle iniziative federaliste culminate nei congressi di Montrteux (1947) e Gastaad (1947). Nello stesso anno a Roma il Movimento Federalista Europeo organizza un convegno sui problemi dell’Europa federata, in cui intervengono F. Parri , P. Calamandrei, I. Silone, L. Einaudi e G. Salvemini (1947).
L’intento del Convegno, come evidenzia Parri (1890-1981), è quello di rilanciare in Italia la battaglia federalista ed analizzare il nuove scenario che si è venuto a creare con lo scoppio della guerra fredda tra USA ed URSS. I conferenzieri pongono l’accento sui diversi aspetti del processo di unificazione europeo. Calamandrei (1889-1956) sottolinea le differenze tra Stato federale e Confederazione:
Carattere essenziale della Confederazione è […] quello di rispettare in maniera assoluta la sovranità e la indipendenza degli Stati confederati. C’è un accordo tra eguali; non, al di sopra di loro, un soggetto a cui loro siano sottoposti. Orbene, il carattere tipico per il quale lo Stato federale si distingue dalla Confederazione di Stati è proprio questo: che nello Stato federale gli Stati componenti e federati non sono più del tutto indipendenti, non sono più del tutto sovrani (Ibid.: 24).
In modo consequenziale, egli evidenzia anche i limiti dell’ONU:
Anche per le Nazioni Unite si ripete la formula malaugurata che portò al fallimento della Società delle Nazioni la formula uguaglianza e unanimità (Ibid: 27).
Inoltre, egli sottolinea il ruolo decisivo che le lotte politiche e popolari devono ricoprire nell’edificazione della Casa comune europea, se non si vuole correre il rischio di farla rimanere una semplice disputa giuridico-accademica:
Non crediate dunque che io giurista possa indicarvi qual è l’articolo del codice che permette di fondare in via legale […] gli Stati Uniti d’Europa. Gli Stati Uniti d’Europa possono crearli i popoli con la loro tenacia, con le lotte politiche, con le loro sofferenze, con le loro rivoluzioni e forse, ma speriamo di no, con le loro battaglie; non i giuristi, né le loro biblioteche e forse neanche i diplomatici intorno ai loro tavolini: gli Stati Uniti d’Europa devono essere una realtà politica e spirituale, una coscienza religiosa ed una fede operosa, prima di potere diventare una forma giuridica (Ibid: 32).
Silone si fa portavoce delle istanze, allora minoritarie nel campo socialista e comunista, di una missione europea del socialismo, capace di superare i limiti degli ambiti nazionali, in cui permane, al fine di stagliare la sua lotta progressista ed emancipatrice su scala internazionale, in modo tale da conciliare le istanze di giustizia sociale con quelle della salvaguardia e promozione della dignità umana e delle libertà individuali.
Dipende dall’unità e dall’indipendenza del continente europeo – sottolinea Silone – se la rivoluzione della nostra epoca – oltre alle forme già note e temute della tecnocrazia e del collettivismo burocratico – ne conoscerà anche una in cui le necessità del benessere collettivo siano armonizzate con i valori culturali del passato, con i valori tutt’altro che superati, o superabili, della Grecia, del Cristianesimo e della rivoluzione liberale (Ibid.: 51).
L’economista liberale L. Einaudi (1874-1961) rimarca gli aspetti inerenti all’unificazione del mercato europeo:
Quel che vogliamo noi federalisti è […] l’abolizione delle frontiere economiche fra Stato e Stato. Vogliamo cominciare dall’Europa occidentale, ben sapendo che questo è un primo passo verso unificazioni più ampie. Ma deve essere ben chiaro che l’abolizione delle frontiere economiche non ha senso se accanto alla libertà di movimento delle cose, delle merci e derrate alimentari, non si avrà anche libertà di movimento degli uomini (Ibid.: 59-60).
Salvemini (1873-1957), invece, si sofferma sui problemi politici dell’unificazione europea. L’intervento del pugliese si caratterizza per un’attenta analisi del processo costituente europeo. Analisi che contribuisce ad evidenziare la portata teorica innovativa fatta valere da Salvemini oltre che sul piano della politica interna italiana, con le sue memorande battaglie in favore del federalismo infranazionale e dell’autonomia comunale, anche sul piano della politica estera.
Infatti, nonostante il fatto che Salvemini non sia stato mai considerato un teorico, ricerche qualificate, sulla base di alcuni studi di N. Bobbio (1984) e di alcune osservazioni di C. Luporini (1977), hanno evidenziato la formazione filosofica di Salvemini di tipo empiristico-nominalista e la sua attitudine ad affrontare questioni metodologiche e filosofico-politiche quali, ad esempio, la natura del metodo di ricerca delle scienze storico-sociali (Antiseri et alia, 1996) e la definizione del concetto di democrazia (Bobbio, 1977). Come a questo proposito ha osservato Bobbio:
[…] Salvemini non solo ha combattuto memorande battaglie per la democrazia ma è tornato più volte nei suoi scritti – specie nel secondo periodo – sulla natura e sulla essenza della democrazia, tanto che un lettore attento ne può trarre una succosa e preziosa summula di principi ideali, vorrei dire, se non m’intimidisse il salveminiano aborrimento delle idee astratte, una compiuta e perfetta teoria dello stato democratico. Del resto, quando egli fa della teoria, la fa alla maniera degli empiristi, non scendendo dal cielo dei concetti, ma restando ben piantato sulla terra dei fatti, di cui è un meticolosissimo raccoglitore, e da buon nominalista, come si conviene ad un empirista, procedendo non per apprendimento di essenze pure, ma per definizione e ri-definizione di parole (Ibid.: 113-114).
Nel quadro della rivalutazione critica degli apporti teorici offerti da Salvemini rientrano anche quelle ricerche che hanno evidenziato il contributo originale espresso dallo storico pugliese in relazione alla questione concernente il rapporto tra federalismo e questione meridionale. Infatti, l’ipotesi federalistica salveminiana è stata considerata il frutto di un’analisi teorico-politica di carattere militante, incentrata sull’“ansiosa ricerca di un approdo innovativo per la politica italiana” (Suppa, 2002).
L’innovazione, – osserva Suppa – pur non espressamente formulata da Salvemini come una vera e propria categoria del processo politico, caratterizza però il suo collegamento fra modificazione dell’arretratezza meridionale e possibilità di un «buongoverno» nazionale. A partire da una sensibilità specificamente storico-politica, il professore molfettese non esita a porre dietro la relazione fra contenuti di governo e modernizzazione del Mezzogiorno, il problema di un mutamento profondo e di carattere politico- strutturale. Pertanto, in lui il federalismo si annuncia, certo, dentro una cultura nazionale unitaria che egli non vuole smentire, ma anche con una forte intenzione di indebolire e spezzare la concentrazione delle forze «reazionarie» e dominanti: “Solo in questo modo [ cioè solo grazie al federalismo] – scrive Salvemini nel 1900 – la parte più avanzata del paese potrebbe esercitare beneficamente una egemonia temporanea sulla parte più arretrata”. E proprio il ricorso ad un termine così poco neutro, come quello di «egemonia», giustifica la necessità di collocare il significato complessivo dell’esperienza salveminiana in un ambito teorico politico, ma di ripensamento militante, più che di analisi o di contributo politico-teoricistico (Ibid.: 281).
La centralità del tema dell’innovazione politica del Paese, con la quale Salvemini cerca di conciliare gli aspetti della democrazia strumentale con quelli della democrazia finale (cfr. Bobbio, 1977), conduce il pugliese a concepire la misura del progresso dei conflitti “[…] in termini di riforme istituzionali e di contemporaneo allargamento delle forme della dialettica politica” (Suppa, 2002: 188).
In sostanza, la critica più recente ha colto l’originalità del pensiero politico di Salvemini nella formulazione di un progetto d’innovazione politico-istituzionale, fondato su una prospettiva socialista unitaria e gradualista, a sua volta incentrata sul modello della democrazia partecipativa. Un progetto capace sia di dare una risposta in termini sperimentali e propositivi ai problemi inerenti la crisi di rappresentanza dello Stato liberale, sia di garantire il controllo da parte dei cittadini dell’operato dei governanti e delle burocrazie amministrative (cfr. Dahrendorf, 2001). Ma questo progetto è stato criticato e rifiutato tanto dai socialisti (cfr. Borrelli, 2002) quanto dai comunisti (Ibidem) per il loro orientamento prevalentemente centralistico ed economicistico, che ne ha inficiato la capacità di formulare teorie, elaborare indagini ed attivare pratiche politiche miranti contemporaneamente sia all’innovazione della sfera socio-economica, sia all’innovazione della sfera politico-istituzionale. Come è stato osservato:
In verità, nell’ambito delle considerazioni di fine secolo, si può con valide ragioni affermare che la cultura politica meridionale ha sofferto e soffre ancora oggi nel merito della produzione di innovazione sul piano delle politiche pratiche e della proposta teorica. Sicuramente questo è anche uno degli elementi che ha contribuito all’aggravamento crescente delle vecchie ed ancora recenti difficoltà del meridione: e, riportando il tema di cui trattiamo all’interno di questo contesto, colpisce – nella sede di un giudizio incontestabile, che bisogna di certo articolare ulteriormente sul piano storico e critico – il fatto del mancato positivo confronto tra le istanze sicuramente originali e innovative e contenute nella proposta salveminiana e gli sforzi sostenuti, nei contributi critici e pratici del secondo dopoguerra, dalle parti socialiste e comuniste (Ibid.: 201).
All’interno di questa griglia critica di riferimento devono essere inquadrate le riflessioni salveminiane sull’unificazione europea, dalle quali emerge con chiarezza non solo la profondità di rimandi teorici delle sue analisi – Hamilton, Kant, Mazzini, Cattaneo – ma anche il carattere empiristico-nominalista della sua impostazione, che rifulge da prospettive astratte per porre con forza e lucidità l’attenzione dell’analisi critica e della riflessione teorica sulle condizioni storiche specifiche a partire dalle quali bisogna analizzare i problemi e prospettare le soluzioni. Il rifiuto da parte di Salvemini delle logiche astratte e dei principi avulsi dalle condizioni effettuali è chiaro ed inequivocabile:
È possibile sperare che questa Europa scombinata abolisca il diritto di guerra fra le nazioni pigmee che la abitano e si organizzi in federazione sul modello svizzero? Se gli uomini fossero ragionevoli, la risposta non sarebbe dubbia. Anzi gli Stati Uniti d’Europa come li vaticinò Carlo Cattaneo or è un secolo, esisterebbero già e noi non dovremmo disturbarci a desiderarli. Se dovessimo affidarci alla logica della ragione ragionante, non avremmo bisogno di arrestarci neanche agli Stati Uniti d’Europa. Potremmo arrivare senz’altro agli Stati Uniti del Mondo. […] La realtà – e non la logica – è che di regola diplomatici, generali, ammiragli, politicanti, giornalisti, filosofi e professori universitari non sono animali ragionevoli. Sono solamente animali; e talvolta i filosofi e i professori sono i più nocivi (Salvemini, 1947: 69-70).
Costoro, continua il pugliese, alimentano l’orgoglio nazionalistico, trascinando le masse verso sentimenti di superiorità e di vendetta. L’opinione pubblica, dunque, è ancora preda di sentimenti nazionalistici, che perpetuano il consenso verso lo Stato nazione, portare di conflitti e guerre. Collegandosi alla migliore tradizione federalista, Salvemini coglie i nessi che intercorrono tra federalismo e pace da una lato e sovranità nazionale e guerra dall’altro.
Divieto di guerra implica limitazione della sovranità. Questa limitazione di sovranità nei gruppi locali è il pilastro fondamentale su cui riposa la federazione elvetica, la federazione nord-americana e ogni altra federazione. […] L’Europa consiste tutta di Stati “sovrani”, cioè investiti del sacrosanto diritto di massacrare i sudditi dei paesi vicini, e di fare massacrare da essi i sudditi propri (Ibid.: 68).
Tuttavia, coerentemente alla sua impostazione empiristica, egli è consapevole del fatto che oramai gli Stati europei hanno perso l’egemonia a livello mondiale:
In realtà, si tratta di pigmei, se credenti e sedicenti sovrani [riferito agli Stati europei], tutti stretti fra due colossi – La Russia sovietica ed il sistema anglo-americano – i quali interferiscono nella vita di quei pigmei, li fanno ballonzolare ai loro ordini, e concederanno loro l’onore di sterminarsi a vicenda solamente in quel giorno in cui essi – i due colossi – decideranno di distruggere nel mondo quanto non è stato demoliti o assassinato durante la prima e la seconda guerra mondiale. Cioè sono essi – La Russia sovietica ed il sistema anglo-americano – i veri sovrani delle pseudo sovrane nazioni europee (Ibidem).
Se il Movimento Federalista Europeo non vuole correre il rischio di isterilirsi su posizioni retoriche ed idealistiche di mero umanitarismo e di generica fratellanza, il processo costituente europeo deve essere valutato entro il quadro politico dei rapporti di forza che vigono a livello internazionale. Da qui, secondo Salvemini, la necessità di costruire uno spazio politico europeo neutrale sia rispetto al sistema anglo-americano sia rispetto all’Unione Sovietica se l’Europa non vuole farsi trascinare nella logica dei blocchi e delle contrapposizioni, che la vedrebbe dequalificata a mera zona cuscinetto delle due superpotenze.
La federazione europea – osserva lo studioso pugliese – deve nascere per la pace, e non per fare la guerra in Europa. Essa non deve servire come zona di sicurezza né al sistema sovietico, né al sistema anglo-americano. Deve essere neutrale fra l’uno e l’altro sistema, come è la Svizzera, nel cuore dell’Europa smembrata d’oggi. Questa federazione europea dovrebbe associarsi con un sistema intercontinentale sovietico-anglo americano, solamente quando i due colossi extraeuropei fossero diventati altrettanto ragionevoli, quanto dovrebbero diventare – ma non lo sono – i pigmei europei. Frattanto, associarsi all’uno o all’altro sistema, significherebbe farsi massacrare e servizio dell’uno o dell’altro sistema (Ibid.: 79).
Lo studioso pugliese formula anche alcune interessanti osservazioni critiche nei confronti delle Nazioni Unite, denunciandone il mero carattere confederativo:
Questa organizzazione [l’ONU] è semplicemente la vecchia Società delle Nazioni, la quale si è liberata dall’impegno di opporre le forze di tutte le nazioni associate a chi si renda colpevole di aggressioni. I governi associati nell’ONU non fanno più questa promessa che nella Società delle Nazioni fecero e non mantennero. Il diritto di veto codificato nello statuto dell’ONU non è se non il principio dell’unanimità, che si trovava nello statuto della Società delle Nazioni. Diritto di veto e principio dell’unanimità sono la stessa cosa, sono la conseguenza logica inevitabile del diritto di sovranità illimitato. L’ONU altro non è che una conferenza permanente di ambasciatori, i quali non possono nulla decidere senza il permesso dei governi di cui sono i delegati. E questi governi – o, per essere più esatti, i governi dei colossi che soli hanno il coltello per il manico – possono mettere il veto su ogni decisione dell’ONU, ma si riservano, senza limitazione alcuna, il diritto di fare la guerra, essendo questo diritto di guerra l’attributo supremo della sovranità assoluta (Ibid.: 83-84).
Nonostante le difficoltà ed i limiti riscontrati nel processo di unificazione europea, Salvemini non si irrigidisce su posizioni scettiche, ma intende solo indicare quelle che sono le condizioni politiche concrete a partire dalle quali realizzare l’ideale cattaniano degli Stati Uniti d’Europa, al quale, in conclusione del suo intervento, si richiama, indicandoci esplicitamente uno degli autori che sono alla base del suo federalismo sovranazionale. Facendo proprie le riflessioni dello studioso lombardo, Salvemini afferma: “L’Oceano è agitato e vorticoso e le correnti vanno in due capi: o l’autocrata o gli Stati Uniti d’Europa” (Ibid.: p. 84).
In conclusione, si può osservare che nella riflessione di Salvemini lo Stato nazione è sottoposto ad un duplice livello di erosione critica. Dall’alto, mediante l’appoggio da lui offerto alla costruzione dell’Unità europea nell’ambito della tradizione socialista e democratica del federalismo sovranazionale. Dal basso, con la sua costante lotta in favore dell’autonomia comunale entro la cornice del dibattito sul federalismo infranazionale, da lui considerato la soluzione idonea alla questione meridionale (cfr. Biagianti, 1986; S. Lucchese 2023). In entrambi i casi, il Moloch dello Stato nazione è demistificato dalla sua veste di promotore e garante dell’universalità etica e della pace, per essere colto sul piano internazionale nella sua dimensione di soggetto portatore di conflitti e guerre, e sul piano nazionale di soggetto di dominio, che favorisce il rovesciamento dell’universalità dei diritti nei particolarismi corporativi, in cui l’antagonismo delle soggettività sofferenti in lotta è stato progressivamente neutralizzato attraverso le distorte dinamiche di scambio autonomia/sicurezza, benessere/antagonismo.
La denuncia di queste distorsioni costituisce, ancora oggi, una delle più lucide critiche “da sinistra” dello Stato sociale e della statualità in generale (Revelli, 1996: 114). È in queste posizioni critiche difficilmente classificabili in questo o in quell’orientamento ideologio-politico tout court, che bisogna individuare la sottovalutazione, se non in alcuni casi denigrazione, dei contributi critici offerti da Salvemini ai temi del federalismo infra e sovranazionale.
Bibliografia
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