di Giuliano Laccetti
Riassunto
In questo saggio si cerca di indagare sulla guerra nella Striscia di Gaza, esaminando le dinamiche storiche e politiche che hanno condotto all’attuale situazione, con particolare attenzione agli aspetti umanitari, alle responsabilità delle forze armate israeliane — sotto la guida di Netanyahu — e alla complessa convergenza di interessi di attori apparentemente contrapposti, quali Hamas e l’ultradestra israeliana. L’antisionismo non va confuso con l’antisemitismo. Nel contesto globale, l’influenza degli Stati Uniti e le posizioni servili di alcuni governi occidentali, tra cui quello italiano guidato da Giorgia Meloni, aggravano ulteriormente il quadro, trasformando questa crisi in un crocevia di passaggi strategici e ideologici.
Parole chiave: Israele, Gaza, Sionismo, Ebraismo, Hamas.
1. Introduzione e quadro generale del conflitto
La Striscia di Gaza, oltre a rappresentare un confine fisico e simbolico tra mondi apparentemente inconciliabili, è diventata teatro di una guerra dalle implicazioni sconfinatamente tragiche. In quest’area, da decenni, si consumano scontri che coinvolgono sia forze armate sia popolazioni civili, e l’ultima fase del conflitto assume contorni di crisi umanitaria senza precedenti. Numerosi rapporti di organismi internazionali e osservatori indipendenti denunciano azioni che molti definiscono come veri e propri massacri, mettendo in luce la sofferenza quotidiana dei palestinesi: stenti, fame, carenza di medici e medicine si inseriscono in un contesto di violazioni sistematiche dei diritti umani. L’obiettivo di questo saggio è quello di analizzare, attraverso un approccio storico-politico, le molteplici sfaccettature del conflitto, indagando sia le radici ideologiche del sionismo sia le trasformazioni che hanno consentito la convergenza di interessi di attori apparentemente inconciliabili.
2. Radici del conflitto: il sionismo e la nascita di un movimento
Alla fine del XIX secolo emerse in Europa il sionismo, concepito inizialmente come una risposta all’antisemitismo e alla necessità di creare un rifugio sicuro per il popolo ebraico. Fondato sul pensiero di Theodor Herzl, il movimento sionista mirava a risollevarsi culturalmente e politicamente, sostenendo l’idea di un ritorno alle origini storiche in una terra ritenuta simbolicamente e materialmente sacra. In quella concezione, il sionismo aveva una valenza emancipatoria e universale, poiché intendeva garantire l’autodeterminazione di un popolo oppresso. E, pur non enunciando esplicitamente uno stato binazionale, diciamo così, essendo di ispirazione vagamente socialista, non considerava in nessun caso il dover espellere gli arabi che da millenni vi si erano insediati. Mi preme ricordare come, nel 1947-1948, quando si discusse all’ONU della nascita di uno stato israeliano, l’Unione Sovietica e i paesi satelliti appoggiarono con forza e convinzione questa proposta, contro il volere di Francia e Regno Unito, che avevano enormi interessi geopolitici ma soprattutto economici (il petrolio) in quell’area. Con il passare degli anni, le posizioni si sarebbero ribaltate quando, con l’avvento di regimi popolari arabi che avevano spazzato via i “colonizzatori” francesi e britannici, l’Unione Sovietica spostò il suo appoggio verso queste nuove nascenti, spesso fragili, democrazie, se non addirittura inaccettabili dittature. Copiosa è la letteratura su quegli avvenimenti, e mi piace ricordare come Golda Meir, autorevole dirigente del Labour israeliano, che poi sarebbe diventata primo ministro, allora affermasse che senza l’aiuto delle armi sovietiche e cecoslovacche, Tel Aviv stessa sarebbe caduta nella guerra arabo-israeliana del 47-48. I tornanti della storia! Perché Stalin appoggiò la nascita di Israele? Solo per contrastare, in maniera strumentale, la posizione di forza di paesi “avversari” come Francia e Regno Unito? Molti storici ritengono che certo questa fu una delle cause, ma ritengono che ce ne fossero altre: l’Unione Sovietica riconosceva nella lotta per l’emancipazione dei popoli oppressi un’eco degli ideali rivoluzionari. In questo senso, sostenere la nascita di un nuovo Stato in un territorio caratterizzato da forti tensioni coloniali poteva essere interpretato come un atto simbolico a favore della liberazione nazionale. Tornando al sionismo, bisogna dire che con il passare dei decenni, e in seguito agli eventi che hanno segnato la storia del Medio Oriente, esso si è trasformato, evolvendosi in una dottrina che oggi, in certi contesti, viene richiamata per giustificare politiche di sicurezza spinta fino alla violenza gratuita, e, talvolta, approcci militari che trascendono i confini della mera difesa. Questa trasformazione rende complesso il bilanciamento tra una legittima aspirazione nazionale e il comportamento che, nella percezione di molti, sfocia in pratiche di repressione e violazione dei diritti umani.
3. La situazione umanitaria nella Striscia di Gaza. L’azione militare di Netanyahu
Il cuore del dramma attuale risiede nelle condizioni disumane in cui versa la popolazione palestinese. Testimonianze, rapporti di organizzazioni per i diritti umani e le molteplici analisi di istituzioni internazionali descrivono una realtà segnata da deprivazioni estreme: l’assenza di servizi medici adeguati, la carenza di medicine essenziali e l’impossibilità di accedere a risorse alimentari di base hanno spinto milioni di abitanti verso situazioni di disperazione e vulnerabilità senza precedenti. Queste condizioni si aggravano in concomitanza con le operazioni militari, attualmente condotte sotto il comando del primo ministro israeliano Netanyahu, che alcuni analisti ed osservatori internazionali hanno definito come vere e proprie operazioni di massacro contro civili inermi e innocenti. Il ricorso costante alla forza in ambito urbano, dove le infrastrutture civili e sanitarie rappresentano il primo baluardo della vita quotidiana, testimonia una scelta politica che oltrepassa il limite della legittima difesa, alimentando una spirale di violenza e sofferenza.
Le operazioni militari intraprese dal governo guidato da Netanyahu hanno suscitato un acceso dibattito non solo sul piano nazionale, ma a livello internazionale. I critici sottolineano come le tattiche impiegate abbiano spesso portato a conseguenze devastanti sul tessuto sociale della Striscia di Gaza, configurando una situazione in cui il bilancio delle vittime civili appare schiacciante. Diversi studi e rapporti, fra cui quelli di organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, mettono in evidenza episodi che potrebbero essere inquadrati nella categoria dei crimini di guerra, evidenziando il massacro sistematico messo in atto durante operazioni mirate che, seppur giustificate dalla retorica della sicurezza, rivelano una logica che mira più al controllo territoriale e politico che al rispetto della vita umana. Tale approccio, inoltre, si inserisce in un contesto in cui la necessità di consolidare il consenso interno si traduce in operazioni che, a livello internazionale, sollevano forti interrogativi sulla legittimità delle pratiche adottate.
4. Convergenza degli interessi: il paradosso tra Hamas e l’ultradestra israeliana
Un elemento particolarmente controverso del dibattito riguarda la “non tanto sorprendente” convergenza di interessi tra due attori che, a prima vista, sembrerebbero diametralmente opposti: da un lato, Hamas, movimento islamista che sostiene la lotta armata per l’affermazione dei diritti palestinesi; dall’altro, l’ultradestra israeliana, il cui esponente maggiore è adesso di fatto Netanyahu, che si fa portavoce di un nazionalismo esclusivo e intransigente. Anche se le loro ideologie appaiono inconciliabili, numerosi studiosi hanno osservato come, in ambito strategico, entrambe le forze abbiano adottato retoriche e pratiche che alimentano la polarizzazione e rafforzano il consenso interno attraverso la creazione di un nemico comune. In molte analisi, si evidenzia che la continua esposizione a una minaccia esterna, reale o esagerata, viene strumentalizzata per giustificare misure di sicurezza contorte e una militarizzazione crescente dello Stato. Tale dinamica favorisce l’accentramento del potere e il consolidamento di narrazioni che annichiliscono le richieste legittime di pace e giustizia. La guerra, gli atti di feroce terrorismo, i bombardamenti di popolazioni civili, fanno “comodo” ad Hamas e fanno comodo a Israele!
5. Il ruolo del sionismo nella trasformazione della politica israeliana. Antisionismo e antisemitismo.
Il sionismo, ideologia alla base della creazione dello Stato di Israele, ha subito notevoli trasformazioni durante il corso del XX e XXI secolo. Originariamente concepito come un movimento di autodeterminazione e rinascita nazionale, esso si è progressivamente spostato verso una visione che, in alcuni settori della politica israeliana, enfatizza la sicurezza e l’espansione territoriale come strumenti imprescindibili per la sopravvivenza dello Stato. Tale evoluzione ha portato a una ridefinizione degli obiettivi sionisti, dove il riferimento alla storicità e alla cultura ebraica viene spesso convissuto con pratiche di esclusione e repressione nei confronti degli altri popoli occupati. La retorica sionista moderna, pertanto, si presenta come una duplice faccia: da un lato, il richiamo alla memoria storica e alla legittimità della presenza ebraica nella terra, e dall’altro, una giustificazione delle azioni militari e delle politiche di settarismo che hanno prodotto conseguenze umanitarie drammatiche nella Striscia di Gaza. Questo passaggio, sebbene controverso, evidenzia le tensioni interne al pensiero nazionalista e la difficoltà nel conciliare aspirazioni idealistiche con la realtà geopolitica.
L’affermazione, ormai consunta, secondo cui “non si può essere anti-sionisti senza essere antisemiti” è diventata una trappola retorica potente, spesso utilizzata per zittire o screditare qualunque critica, anche legittima e argomentata, nei confronti dello Stato di Israele. Una trappola che confonde volutamente i piani, facendo coincidere l’identità ebraica con il progetto sionista, l’ebraismo con lo Stato d’Israele, il diritto all’esistenza con l’impunità politica e militare.
In realtà, il sionismo non è un’essenza eterna né un principio sacro: è un’ideologia storica e politica, nata nell’Europa dell’Ottocento, in un contesto segnato da nazionalismi e antisemitismo. È una visione che ha assunto forme diverse e contraddittorie nel tempo, fino a diventare – con l’istituzione dello Stato d’Israele – un progetto coloniale sostenuto da potenze occidentali, fondato su una logica di esclusione e supremazia etnica.
Essere antisionisti non significa odiare gli ebrei, così come essere anticapitalisti non significa odiare chi possiede un’impresa. Significa opporsi a un’ideologia che, in nome della sicurezza ebraica, ha generato espulsioni, occupazioni, apartheid e massacri. Significa riconoscere che esistono ebrei antisionisti. Che la critica dello Stato d’Israele può essere parte di un più ampio discorso di giustizia, libertà e autodeterminazione dei popoli.
Oggi, di fronte alla catastrofe umanitaria di Gaza, continuare a confondere antisionismo e antisemitismo non è solo un errore teorico: è un atto complice di omicidio di massa. Serve a delegittimare ogni forma di resistenza palestinese, a giustificare l’assedio, le bombe, le punizioni collettive. È un modo per silenziare le coscienze, per ridurre ogni dissenso a odio, ogni solidarietà a pericolo.
Rivendicare la distinzione tra sionismo e ebraismo, tra critica politica e pregiudizio razziale, non è solo un esercizio di rigore concettuale: è un’urgenza morale e politica. Perché ogni popolo ha diritto alla vita, ma nessuno ha diritto all’impunità. E perché in nome della memoria non si possono giustificare nuove ingiustizie.
6. Gli attori internazionali: il ruolo degli Stati Uniti e l’influenza sul governo Meloni. La giustizia internazionale. La diplomazia
In un contesto globale caratterizzato da equilibri precari, il ruolo degli Stati Uniti emerge con forza come stella polare nella definizione delle politiche di sicurezza israeliane. Dal sostegno politico e militare incondizionato, gli Stati Uniti hanno da tempo posto le basi di una relazione che spesso trascende il mero interventismo, configurandosi come un pilastro imprescindibile per la legittimazione e il rafforzamento della presenza israeliana nella regione. Tale dinamica ha ripercussioni dirette anche sui comportamenti degli alleati occidentali: in Italia, ad esempio, il governo di destra guidato da Giorgia Meloni è stato talvolta criticato per aver adottato posizioni che appaiono servili nei confronti della politica statunitense, contribuendo indirettamente a legittimare approcci militari e retoriche bellicose in Occidente. Queste posizioni, definite da alcuni commentatori come “pilatesche” e guerrafondaie, si fondano su una visione unilaterale della realtà internazionale, in cui la protezione degli interessi nazionali si confonde con il sostegno a politiche che, in ultima analisi, perpetuano conflitti e sofferenze diffuse.
Il dibattito sul conflitto in Gaza non può prescindere da un’analisi approfondita delle implicazioni etiche e giuridiche derivanti dall’uso della forza in ambiti densamente popolati. Le operazioni condotte sotto l’egida del governo Netanyahu hanno aperto una riflessione critica sul rispetto delle norme internazionali e dei diritti umani. Le testimonianze raccolte in loco, unitamente all’analisi di rapporti ufficiali delle Nazioni Unite e di organizzazioni non governative, suggeriscono che le modalità operative, caratterizzate da bombardamenti indiscriminati e dalla distruzione sistematica di infrastrutture civili, possano configurarsi non soltanto come gravi errori strategici, ma come violazioni deliberata del diritto internazionale umanitario. Di conseguenza, il cammino verso una giustizia internazionale appare ostacolato da una serie di barriere politiche e ideologiche che favoriscono l’impunità e l’accentramento del potere, evidenziando l’urgenza di una riforma dei meccanismi di responsabilità globale.
Di fronte a una spirale di violenze e repressione, la comunità internazionale si trova chiamata a passare da una logica militare a quella diplomatica. In quest’ottica, risulta fondamentale mettere in discussione le dinamiche di alleanze e di convergenza strategica che, alimentate da logiche nazionaliste e da interessi geopolitici, impediscono una soluzione condivisa del conflitto. La prospettiva di un dialogo aperto, supportato da organismi internazionali e da una riformulazione delle modalità di intervento, si configura come l’unica via per porre rimedio alle sofferenze dei civili e per ristabilire un equilibrio di potere più rispettoso dei principi di giustizia e umanità. Solo attraverso un impegno multilaterale, che sappia mediare tra le diverse istanze e riconoscere le radici storiche di un conflitto tanto antico quanto complesso, si potrà sperare in un futuro in cui la diplomazia prevalga sulla forza e in cui le vittime di questa guerra possano finalmente vedere una strada verso la riconciliazione.
7. Conclusioni
La guerra nella Striscia di Gaza rappresenta un crocevia drammatico di aspirazioni, ideologie e interessi strategici che, prevaricando sulla dignità umana, hanno generato una crisi di proporzioni catastrofiche. L’analisi storica del sionismo evidenzia come un movimento nato da nobili intenzioni di autodeterminazione si sia trasformato in una dottrina che oggi giustifica, in alcuni settori della politica israeliana, pratiche assai discutibili sul piano etico e giuridico. Le operazioni militari condotte da Netanyahu, denunciate innumerevoli volte come massacri a sfondo tanto politico quanto strategico, hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva e continuano a generare un dibattito acceso sull’equilibrio tra sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali. La seconda faccia di questo conflitto, quella della convergenza tra interessi apparentemente inconciliabili – rappresentati da Hamas e dall’ultradestra israeliana – apre una riflessione inquietante sulle dinamiche del potere moderno, in cui la creazione di un nemico comune serve da collante ideologico per rafforzare posizioni interne anche nelle nazioni alleate, come testimonia la relazione ambivalente con Stati Uniti e il governo Meloni.
In ultima analisi, la crisi di Gaza non è soltanto una questione di insediamenti e di territori contesi, ma rappresenta un’emergenza umanitaria e morale che richiede una risposta globale e coordinata. È indispensabile, pertanto, che la comunità internazionale isi interroghi non solo sul come porre fine alle violenze quotidiane, ma anche sul perché le logiche di potere e di controllo, che hanno radici profonde nella storia recente, continuino a prevalere sulle esigenze di giustizia e di pace. Solo un approccio multilaterale, capace di integrare istanze di rispetto dei diritti umani con un impegno concreto di riforma dei meccanismi di sicurezza, potrà forse allontanare le ombre di questo conflitto e chiedere una nuova lettura di un’idea – quella del vivere insieme – che trucca troppo a lungo le cicatrici di terre martoriate.
Come ha scritto Norman Finkelstein, intellettuale ebreo figlio di sopravvissuti ai campi nazisti, “i palestinesi non sono i dannati della Terra solo perché subiscono l’oppressione. Sono i dannati perché nessuno vuole ascoltarli, nessuno vuole vederli”. In un mondo che spesso si trincera dietro narrazioni semplificate e retoriche securitarie, la voce palestinese – come quella di tanti popoli oppressi – viene sistematicamente marginalizzata. Finkelstein ci ricorda con forza che la difesa dei diritti umani non può mai essere selettiva, e che non si può evocare la memoria della Shoah per giustificare nuove ingiustizie. È in questa luce che dobbiamo leggere la crisi di Gaza: non come un conflitto tra religioni o identità, ma come un’emergenza di giustizia universale, che ci interpella tutti. Per questo, non basta più l’indignazione: occorre uno sforzo collettivo per rovesciare la logica della forza e restituire centralità alla dignità di ogni essere umano.
“Mio padre è morto ad Auschwitz, mia madre è morta a Majdanek. Ogni membro della mia famiglia, sia da parte di padre sia da parte di madre, è stato sterminato. Entrambi i miei genitori hanno partecipato alla rivolta del ghetto di Varsavia, ed è esattamente per la lezione che i miei genitori hanno dato a me e ai miei fratelli, che io non rimarrò in silenzio mente Israele commette i suoi crimini contro i Palestinesi; e non considero niente di più spregevole dell’usare la loro sofferenza, il loro martirio, per tentare di giustificare la tortura, la brutalità, la demolizione delle case, che Israele commette ogni giorno contro i Palestinesi! Io rifiuto di farmi ancora intimidire o soggiogare dalle lacrime. Se tutti voi aveste un cuore, lo usereste per piangere i Palestinesi!”
Bibliografia
Finkelstein, N., Gaza. An Inquest into Its Martyrdom.
Finkekstein N. (2010), Speech all’Università di Ottawa.
Khalidi, R. (2006), The Iron Cage. The Story of the Palestinian Struggle for Statehood, New York: Basic Books.
Mlečin, L. (2008), Perché Stalin creò Israele, Roma: Sandro Teti Editore.
Sara, R. (1995), The Gaza Strip: The Political Economy of De-Development, Harvard: University Press.