Riceviamo e pubblichiamo il contributo di Michele Eugenio Di Carlo
Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868 – Roma 1953), – l’economista lucano che sarebbe diventato Presidente del Consiglio nel 1919 -, pubblicava nel 1900 a Torino un volumetto sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato dal titolo Nord e Sud, edito dall’amico deputato torinese Luigi Roux. L’autore, all’epoca trentaduenne docente ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario presso l’Università di Napoli, affrontava per la prima volta in maniera scientifica lo studio del bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97, mettendo in evidenza, contrariamente a quando comunemente ritenuto da politici, studiosi, accademici di fine Ottocento, l’iniqua ripartizione della spesa pubblica in Italia: dall’Unità in poi il Mezzogiorno aveva subito un continuo e costante drenaggio di risorse atto a favorire lo sviluppo infrastrutturale e industriale dell’Italia settentrionale.
Nitti, il cui nonno paterno dal passato carbonaro era stato ucciso a Venosa dai briganti di Carmine Crocco durante una reazione filoborbonica, sarà aspramente contestato e accusato di fomentare e alimentare contrasti in un’Italia già profondamente divisa. Tuttavia, le lucide analisi di Nitti indicavano chiaramente la responsabilità delle politiche governative del primo quarantennio unitario, che avevano accresciuto il divario tra le “Due Italie”. Nel 1903 Nitti pubblicava a Napoli il testo Principi di scienza delle finanze, un’opera di fama mondiale adottata da diverse università in Italia e all’estero. Nel 1904 diventava parlamentare.
Da deputato Nitti metteva le sue competenze a disposizione di Giovanni Giolitti, partecipava all’inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Basilicata e della Calabria e si impegnava nella costituzione dell’Ente Volturno, volto alla produzione di energia elettrica, oltre che nelle trattative affinché nascesse a Bagnoli l’Ilva.
In Nord e Sud, l’economista lucano sgombrava il campo da analisi superficiali o di comodo, tendenti a ridurre a mera speculazione antropologica la natura del divario che si era venuto creando negli ultimi decenni. A chi legava il mancato sviluppo del Mezzogiorno a razzistiche teorie suggerenti l’inferiorità della “razza” meridionale, Nitti opponeva analisi, studi, statistiche che dimostravano scientificamente che il divario tra le due aree del paese era diventato così consistente in relazione a precise scelte di politiche finanziarie, economiche e doganali. Nitti si contrapponeva nettamente alla tesi “molto comune […] non solamente radicata nel Nord d’Italia, che il Sud sfrutti il bilancio nazionale»: i meridionali non pagavano affatto meno tasse e meno imposte come era solito dirsi e non conservavano i propri risparmi in maniera improduttiva come si credeva comunemente. Anzi, il Mezzogiorno fino al 1860 aveva conservato «più grandi risparmi che in quasi tutte le regioni del Nord”, vi si “viveva una vita molto gretta, ma dove il consumo era notevolmente alto”. E fino a prima delle politiche doganali del 1887, tra il 1880 e il 1888, “la ricchezza agraria del Veneto non era superiore a quella della Puglia, e tra Genova e Bari, tra Milano e Napoli era assai minore differenza di sviluppo economico e industriale che ora non sia. Ma adesso (1900, n.d.a.), insieme a una diminuzione nella capacità di consumo, si notano i sintomi allarmanti dell’arresto del risparmio, dello sviluppo della emigrazione povera, della pigra formazione dell’industria di fronte al bisogno crescente. Tra il 1870 e il 1888 la importanza del Mezzogiorno nella vita sociale ed economica dell’Italia era molto maggiore che oggi non sia” (Nord e Sud, Rionero in Vulture, Calici Editori, 2000, pp. 7-8).
Emergeva chiaramente dall’analisi dei bilanci dello Stato dal 1862 – anno di unificazione del sistema tributario con l’estensione agli altri Stati preunitari del sistema fiscale piemontese ad opera del ministro livornese Pietro Bastogi, tramite ben cinque disegni di legge – al 1896-97, che il divario nord-sud era notevolmente cresciuto, non solo a causa di una iniqua ripartizione territoriale della spesa pubblica, ma anche per la deleteria sostituzione del “semplice e quasi elegante organismo della finanza napoletana” con gli ordinamenti finanziari del Regno di Sardegna, gestiti da una macchina burocratica dal “numero strabocchevole di agenti di ogni grado…” (Ivi, pp. 32-33).
Grazie agli studi di Nitti iniziava a delinearsi un quadro delle finanze degli Stati preunitari che si era cercato accuratamente di occultare: “senza l’unificazione dei varii Stati, il regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle risorse era necessariamente condannato al fallimento” (Ivi, p. 18); le finanze piemontesi si erano salvate dal fallimento grazie all’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie.
Ai Borbone si potevano fare le critiche più disparate, “ma qualunque il giudizio che si dia di essi non bisogna negare che i loro ordinamenti amministrativi erano spesso ottimi; che la loro finanza era buona e, in generale, onesta” (Ivi, p. 19). E queste considerazioni, coraggiose ed esplosive per quei tempi, Nitti le ricavava da documenti inoppugnabili: la pubblicazione del Ministero delle Finanze del luglio 1860 sui bilanci napoletani dal 1848 al 1859 e la relazione di Vittorio Sacchi, inviato fiduciario a Napoli del Conte di Cavour,in qualità di segretario generale delle finanze dal 1° aprile al 31 ottobre 1861.
Tuttavia ancora oggi, persino nei dizionari, il termine borbonico viene strumentalmente utilizzato nell’accezione negativa, quale sinonimo di cattiva amministrazione o di ridondante e poco trasparente burocrazia.
Dalle analisi di Nitti ad oggi,le politiche economiche e finanziarie italiane in riferimento alla ripartizione territoriale della spesa pubblica sono diventate più eque?
La risposta la troviamo ad esempio nel Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, l’Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali degli italiani, il quale attesta incontrovertibilmente che, in relazione alla percentuale di popolazione residente, al Mezzogiorno dal 2000 al 2017 è stata sottratta una somma pari a 840 miliardi. Tanto che il presidente Gian Maria Fara, commentando il rapporto, ha indirettamente reso merito proprio a Nitti, dichiarando ad una stampa distratta le seguenti significative espressioni:
“Sulla questione meridionale, dall’Unità d’Italia ad oggi, si sono consumate le più spudorate menzogne. Il Sud, di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia, come luogo di concentrazione del malaffare, come ricovero di nullafacenti, come gancio che frena la crescita economica e civile del Paese, come elemento di dissipazione della ricchezza nazionale, attende ancora giustizia e una autocritica collettiva da parte di chi – pezzi interi di classe dirigente anche meridionale e sistema dell’informazione – ha alimentato questa deriva”.