di Giuliano Laccetti
Un colpo di Stato, orchestrato lontano da Teheran, stravolse il destino dell’Iran il 19 agosto 1953. Quel giorno, il governo democraticamente eletto del primo ministro Mohammad Mossadeq venne rovesciato da un’operazione congiunta dei servizi segreti statunitensi (CIA) e britannici (MI6). La “colpa” di Mossadeq? Aver nazionalizzato l’industria petrolifera iraniana, minando gli interessi delle grandi compagnie occidentali, in primis la British Petroleum, e aver tentato di modernizzare il Paese, attirandosi così l’ostilità sia del clero sciita sia delle potenze coloniali.
Dietro l’operazione si nascondeva una convergenza di interessi che metteva insieme da un alto gli ayatollah più conservatori, dall’altro i governi di Washington e Londra. Mossadeq fu arrestato, lo scià Mohammad Reza Pahlavi riprese il potere e instaurò un regime autoritario, sostenuto da una brutale polizia segreta, la famigerata SAVAK, addestrata dal Mossad israeliano. La monarchia si fece sempre più repressiva e isolata dal suo stesso popolo.
Negli anni Settanta, la crescente insoddisfazione per l’autoritarismo dello scià esplose in un’ondata di proteste popolari. Un evento simbolico fu l’incendio doloso del Cinema Rex ad Abadan, il 19 agosto 1978, che provocò tra le 400 e le 700 vittime. Il regime ne attribuì la responsabilità all’opposizione “islamico-marxista”, ma molti, incluso l’ayatollah Khomeini – allora in esilio – accusarono la SAVAK stessa, sollevando l’ipotesi di un crimine utile a screditare l’opposizione.
Quelle proteste non si placarono. Dopo mesi di manifestazioni, scioperi generali e repressioni sanguinose, lo scià abbandonò l’Iran nel gennaio 1979. Ad aprile, con una schiacciante maggioranza, venne proclamata la Repubblica Islamica. In un’analisi lucida e precocemente disincantata, il leader albanese Enver Hoxha scrisse nel 1980: “Come confermano le vicende dell’Iran, le masse popolari svolgono un ruolo notevole e decisivo nella realizzazione della rivoluzione. In quel paese si sono messe alla testa della lotta e hanno rovesciato la monarchia feudale dei Pahlavi, assestando così duri colpi all’imperialismo. Tuttavia, non possiamo affermare che il cieco fanatismo degli ayatollah abbia assicurato la vittoria alle masse, né sia di aiuto a queste per portare avanti la loro lotta”. Parole che, col senno di poi, sembrano profetiche.
Nel gennaio 1980 l’Iran visse un momento di rara speranza democratica: con circa il 70% dei consensi, il leader laico e progressista Abolhassan Banisadr venne eletto presidente, nel primo voto popolare diretto della storia iraniana. Sostenuto da forze laiche progressiste e moderate, Banisadr ottenne il consenso di una stragrande maggioranza di cittadini iraniani, a dispetto della asfissiante presenza del clero sciita e dei suoi movimenti (che difatti controllavano la maggioranza in Parlamento); con coraggio, cercò di guidare un Iran pluralista e decentralizzato. Ma ben presto si trovò isolato: il Parlamento (Majlis), controllato dal Partito della Repubblica Islamica, gli impose un primo ministro ostile, e l’ayatollah Khomeini ne minò progressivamente l’autorità.
La guerra con l’Iraq e la crisi degli ostaggi offrirono al potere teocratico l’occasione perfetta per schiacciare ogni dissenso. Il conflitto tra il presidente e le istituzioni religiose divenne insanabile. Banisadr fu destituito nel giugno 1981 e costretto a fuggire in esilio in Francia. Né gli Stati Uniti, né le potenze europee mossero un dito. Preferirono mantenere aperti i canali con Teheran, garantirsi i rifornimenti energetici e proteggere i propri cittadini, lasciando cadere nel vuoto la possibilità di sostenere una transizione democratica.
Così, passo dopo passo, l’Occidente ha contribuito – talvolta con calcolo, talvolta con indifferenza – a disfare le speranze di un Iran moderno e democratico. Dapprima rovesciando un governo laico e sovrano come quello di Mossadeq; poi tollerando, e in alcuni casi favorendo, l’instaurazione di un regime teocratico e autoritario. L’Iran, proseguendo nell’opera di laicizzazione e modernizzazione e, soprattutto, di autonomia diBanisadr, chissà, avrebbe potuto essere molto diverso da quello che conosciamo oggi. Ma il timore dell’Occidente verso un Paese indipendente, democratico e progressista – potenzialmente “pericoloso” modello per altri nel Medio Oriente – ha avuto la meglio.
Il seguito è noto. La crescente (indubitabile) avversione della popolazione iraniana nei confronti dell’occidente e degli Usa, alimentata dal regime autoritario teocratico e repressivo degli ayatollah, la “voglia” di raggiungere il ruolo di “superpotenza” regionale, la dichiarata ostilità, fino a predicarne ufficialmente la distruzione, nei confronti di Israele, ha portato l’Iran nel novero degli stati-canaglia. Indubbiamente l’Iran costituisce un pericolo per la pace, la stabilità, la convivenza civile. Insieme a tanti altri, Israele ahimè compreso, a mio avviso.
Queste riflessioni, sintetiche, non vogliono certo essere definitive. La storia dell’Iran merita un’analisi profonda, complessa, geopoliticamente rigorosa. Ma è “discutibile”, cioè da discutere e approfondire, argomentare e studiare, il fatto che molte delle radici dell’estremismo con cui il mondo si confronta oggi, ad esempio il “pericolo-Iran”, affondino anche nelle scelte ciniche e miopi compiute da chi, in nome della stabilità e del profitto, ha chiuso gli occhi davanti alla libertà calpestata.