di Antonio Salvati

Nel nostro tempo, per la prima volta nella storia, è nato un vero e nuovo popolo: gli anziani. Ha osservato Mons. Vincenzo Paglia – nel volume Il senso della vita (Einaudi Stile libero 2021 pp. 189, € 16,50), scritto insieme a Luigi Manconi – che vivono assieme quattro generazioni: quella dei ragazzi, quella dei giovani, quella degli adulti e quella degli anziani. L’Italia, dopo il Giappone, è il secondo Paese più vecchio al mondo. Un primato per certi versi invidiabile. Avere trent’anni in più da vivere – spiega Paglia – comporta notevoli conseguenze sul modo stesso di concepire la propria esistenza, i propri giorni, i propri progetti: «non è senza ripercussioni dover programmare tanti anni di vita dopo il pensionamento, essendo sani o malati. E ha notevoli implicazioni per un bambino che nasce oggi avere un numero di anni ben più cospicuo di quello dei suoi genitori. Una vita nascente che ha davanti a sé un cammino incerto quanto al resto, ma non al fatto che sarà assai più lungo e una morte sempre più lontana e persa tra i problemi posti dalle nuove malattie degenerative e che le tolgono il carattere di evento puntuale e le assegnano più di frequente quello di un lento e penoso processo, pongono in essere le condizioni perché le classiche età della vita – infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia – assumano confini e contenuti nuovi e con esse l’esistenza umana nel suo insieme. La longevità, quindi, non introduce solo un cambiamento quantitativo nella considerazione della vita umana ma, forse in maniera ancor più radicale, modifica le stesse età della vita dando origine a nuove problematiche e a nuove riflessioni. E invece continuiamo a ragionare quasi la vecchiaia fosse quella di altri tempi».

Tutti vorremmo invecchiare a casa nostra, «o – come direbbe Paglia – almeno in luoghi aperti, civilmente inseriti in un tessuto umano e sociale, circondati da quelle cure che permettono agli esseri umani di sentirsi ancora tali».Ma questo desiderio non è alla portata di tutti, almeno in Italia, Infatti, spesso quando un anziano dichiara che vorrebbe vivere a casa, scatta un pensiero che si ammanta di valore: noi, per il tuo bene, ti portiamo nella casa di riposo. E, magari, li si dichiara “dementi” e quindi incapaci di giudizio. Una società che spesso idolatra le libertà, costringe gli anziani alla volontà altrui. Eppure a tanti anziani non manca una casa. Non mancano neanche le soluzionipraticabili e praticate.

Siamo la prima “generazione della vecchiaia di massa”. Proprio per questo – ha evidenziato Paglia – bisogna costruire un nuovo pensiero politico, economico, sociale e spirituale sull’età anziana, «una stagione feconda della vita al pari di tutte le altre». E farlo in fretta. È giusto vivere gli ultimi anni della propria vita in un casermone coi vetri delle finestre difficili da aprire, soli in un ambiente affollato, ma di fatto soli? O morire a casa, senza uno straccio di aiuto, familiare o pubblico e privato? Le statistiche ISTAT ci dicono che così vivano centinaia di migliaia (anche milioni) di over 65. Davvero vogliamo per noi e per i nostri cari una vecchiaia così?

La legge n. 33 del 23 marzo 2023 che mira a riformare il sistema di assistenza per le persone anziane non autosufficienti, ponendo le basi per un sistema di welfare integrato, è un primo passo importante. In attesa delle implementazioni del provvedimento legislativo, urge una riflessione approfondita sul mondo delle RSA o meglio sull’istituzionalizzazione degli anziani.

Senza dubbio gli anziani rappresentano una delle principali contraddizioni della nostra società. L’umanità ha sognato, per secoli, di allungare la vita, di non morire. È una vicenda di ricerca dell’elisir di lunga vita che fu degli alchimisti o la caccia alla fonte dell’eterna giovinezza che fa restare giovani. Nelle società antiche si venerava il vecchio come una eccezione miracolosa alla morte dei più. Nelle società agricola, illetterate, vigeva il famoso detto africano: la memoria del vecchio era una biblioteca. Oggi in Africa, abbiamo avuto profonde trasformazioni: c’è un’inflazione di anziani, tanto che in alcune situazioni si parla di una eutanasia imposta, cioè di soppressione di anziani motivandola col fatto che avrebbero rubato la vita ai giovani. Certo non abbiamo raggiunto il sogno dell’eterna giovinezza, ma l’aumento della speranza di vita in tutto il mondo è una novità sbalorditiva della seconda metà del Novecento: 83 anni in Italia. Noi boomer,da giovani, quando uno aveva una nonna di 80 anni lo diceva a tutti perché era un fatto straordinario. Il XIX secolo eredita questa novità, ma la vive con ansia pensando agli effetti sul sistema pensionistico e sanitario. È stata una vera vittoria? Nella società dell’esaltazione dell’io gli anziani restano una contraddizione, mostrano l’evidente bisogno di supporto di un noi familiare.La questione è grave, antropologica, morale, di una società che tende ad occultare la vecchiaia con un duplice processo: si nasconde l’età con l’imbellettarsi, provando a vivere da giovani e questa è una tendenza abbastanza vecchia, non recente.

Le villette, gli istituti e cose simili sono da tempo diventate enormi aree di parcheggio per gli anziani, anche per i disabili. Ci troviamo di fronte a istituzioni molto spesso chiuse all’esterno, per tanti versi simili ai manicomi e alle carceri. Però gli istituti non hanno nemmeno la cultura che teoricamente dovrebbe presiedere al carcere: il recupero del detenuto. Gli istituti non hanno mai avuto il loro Basaglia come i manicomi che sono stati chiusi in Italia nel 1978. Manca un’ideale o una visione per l’istituto, se non quello di una specie di detenzione. Si scarta la vita dell’anziano che in realtà è una grande conquista della società. Insomma cosa vuol dire istituto? Che non si sa che cosa fare di questa vita e che viene parcheggiata come una macchina senza targa. Si perde la misura del tempo, il calendario, l’ora insomma una vita senza scopo, tutto il giorno di fronte a un muro, o vagando sulla carrozzina chi può. Istituti che gradualmente si allontanano dalle città, con visite dei familiari sempre più diradate, con lo smarrimento progressivo di essere stati parte di un noi familiare o una memoria di un noi familiare. Soprattutto è una vita senza scopo perché l’obiettivo dell’istituto non è restituire una vita migliore, né tanto meno guarirla in senso medico o, al limite, evangelico. L’obiettivo non è la vita ma, più o meno assistiti, è aspettare la morte. Difficile fuggire perché il paziente è espropriato della sua libertà, perché non ce la fa da solo ad affermare la propria libertà. Si perde la forza di carattere fiaccati dalla vita. Tante volte si dice “quell’anziano è cattivo”, ma bisogna essere cattivi in certe situazioni per avere carattere. La famiglia, anche se può, non ti aiuta a uscire.

L’anziano, in maniera chiara e talvolta estrema, rivela il bisogno del noi di ognuno. Scriveva il filosofo cattolico francese Emmanuel Mounier, teorico della rivoluzione personalista, morto subito dopo la guerra mondiale: «il noi, realtà spirituale, quale conseguenza dell’io non è frutto dell’annullamento delle persone, ma del perfezionamento». È un concetto molto importante: il noi è un perfezionamento dell’io. Solo nella comunità, aggiunge Mounier, si realizza la persona. Evidentemente ciò non significa che abbia qualche probabilità di realizzarsi smarrendosi nell’impersonale, il noi non è l’impersonale. Per Mounier il vero io pieno e libero sboccia in un noi. La persona fragile dell’anziano non si realizza nell’impersonalità spesso coercitiva dell’istituto. Anzi si spegne l’io nella sua particolarità, proprio in un momento della vita quando le auto difese della personalità si sono notevolmente abbassate.

Negli istituti frequentemente si assiste a rapidi di deperimenti. Si comincia a non mangiare, si mette la cannula, ci si deperisce. Spesso si offre il minimo delle cure e anche il minimo del cibo. L’ospite dell’Istituto si spersonalizza, anche perché la realizzazione della persona anziana non interessa a nessuno. I giovani anziani sono imbevuti della cultura dell’autorealizzazione, quando fanno palestra, si tingono, cercano di tenersi su. Poi improvvisamente l’anziano dopo una vita deve privarsi dei residui del suo io, spogliarsi di tutto, non perché lo sceglie, ma perché viene obbligato a questo. Alcuni anziani non si riconoscono più davanti allo specchio, perché non si specchiano più. Oppure dopo mesi o anni negli istituti gli anziani non si riconoscono nelle foto. È accaduto in alcuni istituti non poter tenere le foto dei propri cari perché fanno disordine e te le portano via.

In Italia viviamo ormai una normalizzazione dell’istituto. Accade in altri Paesi europei dove gli anziani hanno introiettato che l’istituto è il proprio destino finale. L’istituto vuol dire morte del futuro della speranza. Una volta un’anziana mi disse: «sono malata, devo essere curata per questo, sto in istituto, debbo morire». Il futuro si perde quando si smarrisce la storia. Senza storia non c’è il futuro. Lasciare la propria casa è come perdere la storia. In istituto si vive senza tempo, tante volte senza neanche la messa domenicale. Non ci sono segni che parlano del futuro. Finiscono gli appuntamenti significativi della vita che parlano del meglio.

Da decenni la Comunità di Sant’Egidio è impegnata per far restare a casa gli anziani. A Roma e altrove è stato diffuso il programma W gli anziani, animato da una semplice filosofia: mai soli. Una rivolta anche contro uno degli aspetti più disumani della società: la solitudine, il grande nemico da rendere inefficace. La casa non è esteriore ma intrinseca alla persona. In un certo senso, la casa riceve un’impronta della persona e dà un’impronta. C’è un legame inscindibile tra la casa e la personalità. Ciascuno di noi ricorda le case dove ha abitato, la casa dove eri bambino. Sapremmo ricostruirne la piantina a memoria.

Non mancano – dicevamo – soluzioni alternative alle RSA come quella del Cohousing che sta sempre più prendendo piede in Italia. Si tratta di strutture abitative che rispondono a diverse esigenze di tipo sociale, economico e sanitario. Mons. Paglia ha poi presentato tre proposte per le RSA, in vista della costruzione di un continuum assistenziale che dia risposte adeguate agli anziani: accreditare le Rsa, secondo precisi criteri, come strutture di transizione, ad esempio gli ospedali di comunità, e così mitigare i problemi di carenza di personale e strutture; incentivare le RSA ad offrire l’intero spettro dei servizi del continuum; chiedere alle RSA di agire nei territori considerando la distribuzione della popolazione, e in particolare le aree interne e i piccoli comuni, in modo da essere centri multiservizi e poter rispondere alla molteplicità della domanda.

Leonardo Palombi, che ha lavorato insieme a Paglia nella Commissione per la riforma dell’assistenza agli anziani, ha inoltre evidenziato la poca diffusione dell’assistenza domiciliare a favore degli anziani, che coinvolge solo una minima parte dei potenziali destinatari, e al Sud un terzo rispetto al Nord. Ha poi sottolineato anche la crescita al Sud di numerose, piccole strutture residenziali per anziani senza controllo, spesso abusive, come risulterebbe dai dati preliminari della ricognizione effettuata dall’Arma dei Carabinieri su incarico del Ministero della Sanità. Strutture spesso illegali che sono luoghi di fortuna dove si viene a sapere di maltrattamenti o di estrema difficoltà nell’essere alimentati e altre questioni che riguardano i diritti umani.

Papa Francesco ha dedicato molte catechesi sul tema della vecchiaia, pronunciate nelle udienze generali del mercoledì, sottolineando l’importanza del preservare il legame indissolubile tra i giovani e gli anziani, tra nipoti e nonni, senza che questi ultimi vengano “scartati” dalla società nel declinare delle forze. I nonni e gli anziani, infatti, rischiano di essere messi da parte e svalutati nella società o in famiglia impedendo così loro di trasmettere l’esperienza, la ricchezza delle radici comuni e i valori della vita alle nuove generazioni. Molti anziani nel nostro Paese soffrono il peso della solitudine. I più fragili hanno pagato un costo altissimo in termini di vite umane durante la pandemia: molti sono rimasti isolati. L’isolamento risulta essere, come sottolineano diversi studi, una delle principali cause di morte. Negli anni scorsi le ondate di calore, assieme all’isolamento, hanno rappresentato un aumento della mortalità del 50% per le persone ultraottantenni. In Italia ci sono 9 milioni di anziani che vivono da soli, di cui 5 milioni sono coppie, persone che non hanno accanto i figli o altre persone e questo rappresenta un momento di fragilità.

Come aiutare gli anziani in questo tempo? La visita a quanti vivono soli in casa o in istituto rappresenta un primo modo per rompere l’isolamento. E magari, insieme alla compagnia, dare dei consigli pratici: non uscire nelle ore più calde; chiudere le finestre nelle ore più calde e aprirle in quelle più fresche; alimentarsi in modo più adeguato: bere più spesso e magiare più frutta, verdura e cibi magri; dotarsi se possibile di un deumidificatore (relativamente poco costoso) se non ci si può permettere un condizionatore. Una pratica alla portata di ciascuno di noi cosa che tutti possiamo fare con quelli che vivono vicini a noi.

Gesù aveva indicato il valore della visita ai malati e ai più fragili. Invito sottolineato da Maria Cristina Marazzi, Ambrogio Spreafico e Francesco Tedeschi, autori del pregevole volume Le guarigioni nella Bibbia. Da Giobbe a Paolo (Morcelliana 2023 pp. 224, € 18,00). La visita è l’inizio, sostengono gli autori, «il minimo, ma tutto comincia da lì. Non bisogna mai rinunciare ad andare nei luoghi di dolore, anche quando sembra si possa fare poco. Andare, guardare, è già cominciare ad amare e portare nel cuore. Vedere permette di non dimenticare (…) Senza vedere è molto più difficile amare». Lo sguardo rende responsabili di ciò che si vede e di chi si vede. Vedere significa cambiare il cuore e nella visita «si rendono visibili quelli che agli occhi di tanti sono “invisibili” perché nessuno li guarda». La visita strappa il malato dall’isolamento e dalla disperazione, rappresenta sempre una piccola guarigione. E non pochi oggi sostengono il valore terapeutico della visita.

 

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