di Antonio Bianco junior
La lotta per la terra dei braccianti dell’entroterra campano, e più in generale di quelli meridionali, ha radice antiche, addirittura prima dell’unificazione nazionale, quando si avvia quel grande processo di trasformazione socio-economica chiamata eversione della feudalità. Cioè quel processo storico che doveva portare anche il contadino della Valle del Fortore, in provincia di Benevento, a diventare proprietario di un pezzo di terra. Ma che invece portò a concentrare – come nel caso del comune di Baselice – la proprietà nelle mani della nuova borghesia agraria, che tra l’altro distrusse gli antichi usi civici e diritti comunitari, usurpando le terre demaniali e in seguito, dopo l’unità nazionale del 1861, anche quelle della chiesa.
Ed è in questo contesto che nasce il fenomeno del brigantaggio. Tra le ragioni, infatti, che spinsero migliaia di contadini e pastori del Sud alla rivolta, non si può non elencare la mancata distribuzione delle terre, promessa non mantenuta da Garibaldi. Tantoché che nel 1860 i braccianti di Montefalcone di Valfortore, credendo a quelle promesse, occuparono le terre del “signorotto” locale, ma furono costretti ad abbandonarle dopo l’arrivo dei garibaldini, i quali giunsero nel paese fortorino a stabilire il nuovo ordine nazionale (l’episodio è riportato nel mio ultimo testo Breve storia del brigantaggio tra Puglia, Molise e Campania 1860-1864 pubblicato da Rubbettino).
Si assiste, dunque, in quegli anni alla nascita di due categorie sociali fondamentali nella storia di queste terre: il latifondista e il bracciante o salariato avventizio. In mezzo, a queste due, figure, a fare da intermediari, c’erano i cosiddetti massari, ossia piccoli affittuari senza i quali si sarebbe dovuto un’azienda priva di un imprenditore agricolo. Il che sarebbe stato un assurdo economico, poiché il proprietario terriero era per la maggior parte assenteista e viveva nelle città del Sud. E come scrive il sociologo Marciani “non ha altro rapporto con l’agricoltore che quello della riscossione di una rendita dalle loro terre”.
In questa organizzazione produttiva, al bracciante non restava che chiedere al proprietario terriero o all’affittuario uno “spezzone” di pochi tomoli di terra, per piantarci grano e granturco, e restituirlo alla fine del ciclo colturale, in cambio di una quantità prestabilita di prodotto.
Dunque, la divisione della terra in spezzoni era tutta organizzata per la produzione della rendita, e strutturata in modo che anche i terreni, dati in affitto ai massari, non potevano dar vita a nessun tipo d’impresa familiare. E ciò non solo per le dimensioni ridotte degli appezzamenti ceduti in affitto, ma soprattutto per la durata brevissima degli affitti stessi.
I latifondisti concedevano la terra con il patto esplicito che doveva essere riconsegnata, alla fine del contratto, senza alcuna miglioria, ed insistevano su questo punto per evitare che i contadini stabilissero su queste terre un diritto perpetuo alla coltura. I proprietari terrieri si opponevano alla formazione della piccola impresa autonoma, perché questo avrebbe significato distruggere le basi del proprio potere economico e politico.
In genere il bracciante riceveva un salario che nella maggior parte dei casi era in natura. Nei contratti di lavoro il latifondista ricorreva a questa forma di compenso alfine di interessare maggiormente l’avventizio alla produzione, una quantità di raccolto veniva prefissata al momento della stipula del contratto. Questa struttura fondiaria e questi rapporti di produzione durarono, più o meno, fino agli anni ’50, quando il mondo contadino scomparve per sempre nel vortice della modernizzazione capitalistica, per lasciare il posto a nuove figure sociali e a nuove dinamiche socio-economiche, e dove l’emigrazione – grazie alle rimesse – ebbe una funzione fondamentale nella ridefinizione dei nuovi rapporti sociali.
Nel Secondo dopoguerra queste terre furono tuttavia teatro di molte rivolte sociali e scioperi anche grazie alla presenza delle prime organizzazioni sindacali che operavano sul territorio. La prima vera forma di organizzazione politico-sindacale sorta nell’alto Sannio fu la Lega operaia fondata negli anni del Primo dopoguerra da Teofilo Petriella di Circello (Benevento).
Petriella, spesso dimenticato dalla storia locale, era un personaggio eclettico, di forte temperamento. Era emigrato giovane in America, qui aveva svolto il mestiere di minatore. Una volta rimpatriato fece carriera nel mondo della scuola fino ad arrivare a insegnare letteratura inglese all’università di Napoli, anche grazie al sostegno dal rettore dell’epoca Leonardo Bianchi di San Bartolomeo in Galdo. “Socialista nell’anteguerra – scrive di lui lo studioso Gianni Vergineo – dotato di una eloquenza trascinatoria, temperamento da tribuno, apostolo del mondo contadino, egli ha tutte le qualità per raccogliere le disperse membra del proletariato delle campagne”. Petriella fu eletto poi deputato nelle fila del Partito popolare proprio nel collegio di San Bartolomeo in Galdo.
I suoi comizi antipadronali erano famosi in tutta la Valfortore. Per questo subirà aggressioni e intimidazioni dai mazzieri appena il Fascismo arrivò al potere. Vergineo riporta nella sua monumentale “Storia di Benevento e dintorni” un episodio, avvenuto a San Bartolomeo, relativo alla sua elezione a parlamentare. Petriella con coraggio lanciava gli “ultimatum” alle forze dell’ordine affinché liberassero i suoi maggiori sostenitori, i quali erano stati arrestati con lo scopo di tenerli lontano dal voto e dal fare attività politico-sindacale insieme a lui. Come scrive il Vergineo, restano nella storia locale, “i suoi appelli alle donne, ancora senza voto, ma sempre presenti in massa a piazza Garibaldi, armate di bastoni, pronte a muoversi ad un suo cenno per recarsi in caserma a liberare i mariti, i figli, i fratelli”. Quelle stesse donne che troveremo qualche anno dopo in prima fila nella Marcia delle Fame del 1957 con i bambini piccoli attaccati al petto, al seguito dei propri mariti. L’avvento del Fascismo mise la parola fine all’esperienza della Lega operaia, bisognerà aspettare il secondo dopoguerra per vedere nel Fortore la nascita di nuove organizzazioni sindacali, quali le Leghe bracciantili e la Camera del lavoro proprio a San Bartolomeo in Galdo.